Come si fa a crescere in un mondo dove chi non c’è viene prima di te? E ancora: una madre può amare un figlio più dell’altro? Lo sa bene Noemi – la protagonista di ‘Matrigna’ l’ultimo romanzo di Teresa Ciabatti – che a nove anni perde il fratellino Andrea durante la festa di Carnevale. Da quel momento, per lei, ci sono voluti anni per riconquistare la normalità, dopo la tragedia. Ma quando torna al paese, scopre che nulla è cambiato, tranne sua madre.
Abbiamo incontrato l’autrice, già finalista al Premio Strega nel 2017 con ‘La più amata’(Mondadori).
Iniziamo dalla fine, dai ringraziamenti. Mi piace questa cosa che ringrazi tante donne, smentisci lo stereotipo che tra di voi ci sia solo una competizione malsana.
Posso dire che il gruppo di amiche scrittrici con cui mi rapporto ogni giorno è diventato una forza non solo per la scrittura. Faccio un esempio: ho molte foto di me bambina, tantissime foto dagli zero agli undici anni, poi una specie di buco nero che include matrimonio e maternità, nessuna foto con mia figlia piccola. Paura di rivedermi, di accorgermi cosa sono diventata, non tanto in relazione al tempo che passa, quanto al ruolo. Nella me di oggi rivedo mia madre, da una parte perdendomi come figlia, dall’altra non trovandomi come madre dall’identità unica. Ecco, con le mie amiche sono di colpo ricomparsa nelle foto. Decine di foto dove ci siamo noi. E non mi viene da guardare me, chi sono, madre figlia, giovane vecchia, ma il gruppo.
Anche in “Matrigna” parli della famiglia. Per te la famiglia è un po’ un’ossessione, mi sbaglio?
È il primo luogo dove si sperimenta il potere che è poi ciò che ci definisce come individui, la nostra distanza dal potere, la quota di libertà personale. Penso a Joyce Carol Oates che fa accadere tutto all’interno della famiglia: amore, manipolazione, sopraffazione, omicidio.
Tu hai considerato indispensabile il “fallimento” del Premio Strega per scrivere questo tuo nuovo libro. Sì, hai dichiarato di far parte di una tipologia di persone in cui il fallimento “fa da spinta”. Spiegami bene.
Ritengo importante nominare le cose con esattezza, non ricorrendo alla mistificazione: ho perso, ma sono il vincitore morale; non è proprio una sconfitta, l’Italia non mi capisce. Il fallimento è un’esperienza preziosa per chi scrive. Penso a me, alla scrittrice che cerco di essere, concentrata sull’umanità che cade. E credo che per raccontarla sia necessario farne parte, almeno a tratti.
Come definisci questo tuo romanzo? Un romanzo sul senso di colpa? O forse un romanzo sulla vita di chi resta quando qualcuno improvvisamente viene a mancare?
Il fuoco è la capacità di attribuire agli altri ruoli di cui sentiamo la mancanza. Padre, madre, senza bisogno che quelli siano davvero padre, madre, fratello. Possiamo trovare chi non abbiamo mai avuto, o chi abbiamo perduto. Che poi mi pare l’unico modo per accettare la morte altrimenti intollerabile. “Non ho ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra quasi di avergli dato una mano a morire” fa dire Ian McEwan a Jack ne Il giardino di cemento. Credo che valga anche il contrario: contribuire al ritorno.
Diciamo subito una cosa, Noemi non è “La più amata”.
Noemi ha il carattere del personaggio secondario. Nata e destinata a rimanere sullo sfondo, anche nelle foto di famiglia. Al contrario della protagonista de La più amata che invade il campo, addirittura la Storia. Arriva Licio Gelli e lei sposta l’attenzione su di sé, lei sul coccodrillo in piscina, lei che rotea su se stessa facendo sollevare la gonna.
C’è un passaggio meraviglioso descritto da Noemi: “Più avanti avrei capito che si trattava di un cortocircuito, lei che guardava me vedendo se stessa che guardava la figlia che guardava la madre.”
Madre e figlia si scambiano di continuo. L’avevo intuito da figlia, da madre oggi mi è chiarissimo.
Ad un certo punto, Noemi parlando della fuga della madre dice: – Immaginavo le morti: dei miei genitori, della nonna, di Andrea. Iniziavo il lutto in anticipo per non vacillare quando sarebbe arrivato – A me questa cosa succedeva davvero da piccolo, tipo che celebravo in anticipo le morti delle persone che amavo, convinto di smaltire una parte del dolore che mi avrebbe coinvolto. Ora io voglio capire se succedeva anche a te, oppure è solo un pensiero che ti sei fatta mentre scrivevi “questo libro.
Ho sempre cercato di anticipare il dolore, in particolare il lutto. Inutilmente, aggiungo, perché quando è arrivato mi ha trovata impreparata, ogni volta.
Quando si spengono le telecamere Carla (la madre di Noemi, ndr) si sente un po’ persa – Non è forse vita guardare in camera e dire al pubblico: ridatemi mio figlio? – ed esprime il suo dolore su facebook. Oggi molti di noi avvertono l’esigenza di palesare il proprio dolore sui social, che sia la perdita di una persona o che sia la fine di una storia d’amore. Tu pensi che questo sia un metodo efficace per sentirsi (forse) meno soli?
Sì.