Negli ultimi anni, diversi drammaturghi e artisti di teatro siriani, in gran parte in esilio, hanno riscosso molto successo anche in Italia, mettendo in piedi delle pièce interessanti. Ne parliamo con Antonio Pacifico, dottorando in Studi arabo-islamici presso l’Università Jean Moulin di Lione. Antonio Pacifico ha collaborato con il Napoli Teatro Festival Italia (NTFI) e, attualmente, continua ad occuparsi di questioni legate alle culture arabe contemporanee che vanno dalla prosa al teatro, dalla poesia agli usi letterari della Storia.
Il mondo arabo dei primi califfati ha preso tanto dal mondo greco antico, per esempio la filosofia. Ha preso anche il teatro dai greci o quello che oggi abbiamo nel mondo arabo è di derivazione successiva?
In realtà, quando noi oggi parliamo di teatro arabo, ci riferiamo al cosiddetto “teatro all’italiana”, introdotto da alcuni intellettuali arabi prima nella regione siro-libanese e poi in Egitto nel corso del XIX secolo. Non parliamo di un teatro arabo tradizionale o autoctono, anche se questa è ancora una questione largamente dibattuta fra gli specialisti del mondo arabo contemporaneo. Il tema dell’origine delle arti drammatiche nella regione continua ad affascinare molti, forse troppi. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che nel mondo arabo sono sempre esistite delle forme pre- o para-teatrali che a volte sono legate a delle ricorrenze religiose, come nel caso della ta‘ziya, e in altre a delle tradizioni laiche o popolari, come nel caso del teatro delle ombre, dei cantastorie o della tradizione marocchina della halqa, in cui gli spettatori si dispongono a cerchio, di solito in uno spazio aperto o in una piazza, per assistere allo spettacolo di un mimo, di un narratore o di un giocoliere. Un’altra cosa che sappiamo, poi, è che nel mondo arabo classico sono esistite delle traduzioni della Poetica di Aristotele già a partire dal X secolo, e forse anche prima. Per il resto, chiunque abbia voglia di approfondire la questione, può fare affidamento sull’eccellente volume di Monica Ruocco, Professoressa di Lingua e Letteratura araba presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Storia del teatro arabo: dalla nahḍah ad oggi, edito da Carocci.
La Siria ha un importante istituto di arti drammatiche.
L’Istituto Superiore di Arti Drammatiche di Damasco è stato ed è probabilmente il più importante di tutto il Medio Oriente. Al suo interno, ritroviamo due filiere di studio principali: quella sull’arte della recitazione e quella sul testo, sulla drammaturgia, sulla scrittura. Quest’istituto è legato a nomi molto importanti per il teatro arabo, pur essendo un luogo di formazione estremamente elitista. Parliamo naturalmente di artisti come Farhan Bulbul, Mamdouh Adwan o Saadallah Wannous e l’Istituto è stato da sempre molto importante nel panorama culturale siriano, poiché ha garantito per diversi anni un’ampia libertà intellettuale ai propri studenti. Tutto è poi cambiato con la guerra civile siriana che ha sconvolto molti equilibri.
Se si vuole, però, le cose erano già cambiate un po’ anche prima. Già nell’anno 2000, si ebbero degli scontri importanti fra le direttrici delle sue due filiere di studio principali dell’epoca, Hanan Kassab-Hassan, Nail Al-Atrash e Marie Elias, e il regime siriano. Durante quella fase, si assisteva al passaggio di potere da Hafez padre a Hafez figlio e molti studenti dell’Istituto intrapresero forme di proteste molto forti che furono sostenute anche da queste tre figure. Parliamo di figure molto rispettate, non solo in Siria, ma anche sul piano internazionale, tant’è che spesso riuscivano a mettere in contatto l’Istituto con altre realtà culturali centrali della Siria, fra cui il British Council, il Centre Culturel Français e il Goethe Institut di Damasco. In ogni caso, da quel momento, l’Istituto vive un momento di grande crisi che durerà per lo meno due o tre anni.
Che strade hanno preso gli studenti dell’Istituto?
L’Istituto negli anni ha sfornato dei nomi molto importanti che, già prima delle Primavere Arabe, portavano i loro lavori in giro per l’Europa. Con lo scoppio della rivoluzione e poi con la guerra civile, la stragrande maggioranza delle personalità di rilievo che si sono formate in Siria sono state costrette a rifugiarsi in Europa. Moltissime di queste figure sono andate in Germania, soprattutto a Berlino, dove a tutt’oggi viene garantito loro un certo spazio, sebbene non siano da sottovalutare neanche i lavori di molti altri autori e artisti di teatro che hanno preferito paesi come la Francia alla Germania. Tra gli ex alunni dell’Istituto, vi sono figure importanti sia in riferimento alla recitazione, sia rispetto alla drammaturgia e alla scrittura dei testi, che si stanno affermando in questi anni un po’ in tutta Europa. Alcuni avevano già lasciato la Siria prima delle Primavere Arabe per continuare i loro studi in Inghilterra o in Francia. Altri, invece, hanno dovuto lasciare la Siria perché coinvolti in modo più diretto nelle proteste delle Primavere arabe.
Quali sono i temi maggiori del teatro siriano contemporaneo?
Ad oggi, si possono individuare diverse tendenze nel teatro siriano contemporaneo che non riguardano soltanto il piano dei temi, ma anche quello delle forme. Un autore che mi piace molto e che ritengo rappresentativo di una delle tendenze principali di questo momento è Waël Kaddour che proprio un anno fa ha portato in scena qui da noi, al Napoli Teatro Festival, uno dei suoi ultimi spettacoli. Kaddour sta tentando di ricostruire un legame fra l’opera di alcune delle figure più rilevanti del teatro siriano degli ultimi cinquant’anni, fra cui Aduan o Wannous, e il teatro siriano contemporaneo. Infatti, le pièce di Wannous facevano uso di uno stile molto intimo, introspettivo, quasi psicologico, basato sul rapporto fra l’individuo e la grande Storia recente. Allo stesso modo, Kaddour ripropone un teatro estremamente intimista che tenta di rileggere gli effetti della Storia sulla psiche umana e tenta di rimettere al centro dell’esperienza teatrale proprio il testo, seppure attraverso forme nuove che sanno guardare anche al globale, al mondo.
Un’ulteriore tendenza, poi, è quella di altri artisti, quali Mohammad Al-Attar e Omar Abusaada, che invece lavorano sulla performance, sull’utilizzo in scena di veri e propri “documenti”, sugli oggetti e sull’uso del verbatim, riproponendo spesso il meccanismo della testimonianza diretta di donne e giovani rifugiati e rompendo in tal modo con determinati meccanismi di rappresentazione “tradizionali”.
E vi sono altre tendenze oggi nel teatro siriano contemporaneo?
In realtà sì, dal mio punto di vista, ci sarebbe un’altra tendenza. E questa, forse, è quella che trovo più interessante, anche perché meno studiata, meno al centro della riflessione critica e accademica. Tematicamente e stilisticamente, quest’ultima si pone innanzitutto il problema della “distanza”: distanza dalle contingenze, distanza dagli eventi della Storia recente, distanza dalla Siria. La riflessione qui è tutta sull’arte, sul ruolo dell’artista, su sé stessi e su come continuare a fare teatro in tempi di crisi. Waël Ali, ad esempio, è uno di questi giovani autori siriani che dalla Francia si chiede innanzitutto come un artista siriano possa continuare a fare teatro, oggi, senza cadere per forza nella trappola di parlare sempre e solo di guerra. Questa tendenza che io – ma che anche altri prima di me – hanno definito della “distanza” è passata piuttosto inosservata nel mondo della critica, anche perché lontana dai discorsi dominanti che ruotano attorno al teatro siriano contemporaneo, fatti di guerra, di rifugiati e di esilio. Troppo spesso, a mio giudizio, tendiamo a parlare solo di questo quando assistiamo ad una pièce di un autore siriano; sebbene, di recente, un numero sempre più cospicuo di ricercatori ha anche evidenziato che nel momento in cui noi cataloghiamo questi autori come dei semplici testimoni della catastrofe siriana, facciamo loro un grande torto.
È possibile quindi parlare di diritti o delle atrocità che avvengono oggi in Siria senza cadere nella trappola di un teatro “della catastrofe siriana”?
In Siria, prima della guerra, c’è stato per diversi anni un progetto di “teatro d’intervento sociale” o “teatro interattivo”, promosso proprio da Marie Elias e da alcuni suoi studenti. Questo progetto portava il teatro in giro per le province siriane, allo scopo di affrontare per e con i siriani delle problematiche legate alla loro vita quotidiana, come la disoccupazione, le questioni di genere oi tabù del sesso. Tuttavia, questo tipo di pratica è cosa ben diversa rispetto ai rischi che hanno a che fare con il modo in cui noi recepiamo oggi il teatro siriano in Europa. Le rivoluzioni delle Primavere arabe e gli eventi traumatici recenti vissuti dal popolo siriano hanno portato molti di questi artisti a confrontarsi con una certa dimensione internazionale dei meccanismi di produzione e di ricezione del teatro che se, da un lato, ha garantito loro tante nuove possibilità, dall’altro, ha anche creato loro tanti “nuovi” ostacoli, come quello di cui abbiamo parlato poc’anzi, ossia, quello di vedere in questo teatro semplicemente un “teatro della catastrofe siriana”, un banale “teatro di testimonianza”. In altre parole, rischiamo di avere un teatro da cui lo spettatore tende ad aspettarsi sempre e solo un nuovo punto di vista sulla guerra, privandosi della possibilità di “vivere” l’esperienza drammatica secondo delle modalità che le sono proprie: una situazione che va benissimo per chi si occupa di guerra o di diritti umani, ma che potrebbe diventare anche un grosso limite per questi artisti, e che forse lo è già.
Mi parli di qualche autore della tendenza che mi ha illustrato poc’anzi, quella che riflette sul ruolo dell’artista e sul modo di “fare” arte senza cadere in questi cliché. Questa tendenza riesce comunque ad affrontare le problematiche legate alla Siria di oggi?
Certamente. C’è modo e modo di parlare del conflitto siriano. Uno di questi autori, come le dicevo, è Waël Ali, di cui mi sono occupato molto traducendo anche la sua ultima pièce teatrale, Sotto un cielo basso. Si tratta di un autore che ha riflettuto molto sul modo di fare arte e su come parlare di Siria, senza cadere nei cliché del drammaturgo siriano in esilio, apprezzato soltanto perché parla della guerra. Il tema del conflitto è affrontato nelle sue opere in modo molto più mediato, indiretto, in un modo che definirei quasi “laico”. Per esempio, in Sotto un cielo basso, Waël Ali riprende il tema della nascita della Siria attraverso un resoconto di viaggio di un generale francese che ha attraversato il paese proprio negli anni della sua istituzione. Parla di questo resoconto quasi con affetto, come un nipote che guarda le foto del nonno o della nonna ancora neonati. Ricrea nelle sue pièce dei legami profondi con il suo pubblico, sia sul piano contenutistico, che sul piano formale, ad esempio utilizzando all’interno delle sue opere non soltanto l’arabo, ma anche una lingua occidentale come il francese. E ingloba nelle sue pièce figure del mondo coloniale occidentale, come Gertrude Bell, archeologa, politica, scrittrice e agente segreto britannica, considerata da molti come la “madre” dell’Iraq. Lo fa in modo molto laico, senza barriere ideologiche, mettendo in luce tutta la fragilità umana.
Quali altre tecniche utilizza?
La scrittura di Waël Ali non è una scrittura agevole. Parliamo di una scrittura frammentata in cui il concetto stesso di personaggio viene a mancare e il drammaturgo in persona, così come i tecnici o lo scenografo ad esempio, è presente sul palco per interagire con gli spettatori e riflettere insieme a loro sulle modalità più adeguate per “fare” e produrre arte. Un’altra tecnica che Waël utilizza spessissimo è quella di portare in scena il tema del meticciato, delle seconde e terze generazioni di migranti presenti oggi in Europa. Anche questo però, in realtà, è funzionale a ricreare delle connessioni con il pubblico, a riflettere sulle difficoltà legate all’uso della parola artistica, soprattutto se ci si è formati in Siria, ma oggi si produce arte in Europa, in questo caso specifico in Francia. È facile cadere nel tranello di banalizzare l’opera di Waël e pensare che lui stia riflettendo sul fenomeno delle migrazioni o delle seconde generazioni, ma non è così: questo è stato un dettaglio su cui si sono soffermati in troppi, a mio giudizio. Waël utilizza questo tema per ricreare delle connessioni con il pubblico, per riflettere su quelle parole che mancano e mancheranno sempre ad un artista che si è formato in Siria, ma oggi è costretto a produrre lontano dal suo paese.
Perché parla di parole mancanti?
Parlo di parole mancanti perché Waël, come molti altri artisti siriani, vive ormai al di fuori dell’unico contesto in cui per lui è naturale “fare” e produrre arte, ossia la Siria, sebbene si sia formato anche in Francia e scriva in francese, oltre che in arabo. Le tematiche legate all’esilio, alla grande Storia o alle migrazioni rappresentano soltanto un primo livello di lettura nelle pièce di Waël Ali, un primo piano di riflessione. Rischiano di rivelarsi uno specchietto per le allodole per il critico o lo spettatore che ha voglia di riflettere in modo più approfondito sulle sue opere. Su un secondo livello, più interno, ritroviamo innanzitutto l’artista, che è chiamato a riflettere sul modo di fare arte senza che la propria storia personale trasformi il suo lavoro in un cliché. Ecco perché è sbagliato parlare delle opere di Waël e di molti altri come di un teatro legato alla catastrofe siriana o alle migrazioni. Nel momento in cui si compie un’operazione del genere, si appiattisce tutta la complessità delle sue opere, per ridurre il tutto ad un cliché. Qui stiamo parlando di un teatro estremamente colto, complesso e, oggi, quello che gli artisti dell’altra sponda del Mediterraneo ci chiedono è semplicemente di essere giudicati per la propria arte, per le proprie capacità, non in quanto rifugiati.