L’Area Schengen è uno dei simboli dell’integrazione europea e include ben 23 Paesi con circa 425 milioni di persone. Qual è il suo stato di salute? FACE Magazine.it ospita l’intervento di Francesca Romana D’Antuono, co-presidente di Volt Europa.
Di Francesca Romana D’Antuono
Co-presidente di Volt Europa
L’Area Schengen, istituita il 26 marzo 1995, è più di un accordo di libero transito: è un potente simbolo dell’integrazione europea, il suo cuore pulsante, e una delle manifestazioni più semplicemente tangibili di questo progetto nella vita di cittadine e cittadini. Se Schengen riflette lo stato democratico dell’Unione, non è un caso, dunque, che oggi mostri segni di affaticamento. Includendo ben 23 Paesi membri dell’Unione europea più Norvegia, Liechtenstein, Islanda e Svizzera, l’area di libero transito copre oltre 4 milioni di km² e ospita circa 425 milioni di persone. Tuttavia, a partire dal 2015, sono diventate sempre più frequenti reintroduzioni temporanee dei controlli alle frontiere, scatenate anzitutto dalla paura delle migrazioni, cavallo di battaglia dell’estrema destra reso tendenza dominante dall’accettazione delle sue premesse e metodi dal centrodestra liberale in Italia e all’estero.
Il Codice Frontiere Schengen prevede la possibilità di interruzioni, certo, ma come misure emergenziali e temporanee, e il loro continuo emergere o la persistenza delle misure ben oltre i tempi previsti, rispecchia tensioni più profonde. Per esempio, proprio nel dibattito sulla gestione dei flussi migratori, i governi di centrosinistra hanno preso negli anni posizioni virtualmente indistinguibili da quelle del centrodestra e della destra estrema. L’esempio più eclatante in Italia è la stipula e il continuo rinnovo, a firma Partito Democratico, degli accordi con la Libia – un Paese che sistematicamente viola i diritti umani di migranti e rifugiati. Questo spostamento della narrativa pubblica, e fattori inaspettati come la crisi scatenata dalla pandemia di COVID-19, hanno creato le condizioni per le quali l’eccezione si sta progressivamente trasformando in norma: sono almeno 17 le interruzioni dell’area Schengen in corso al momento. Paesi come Italia e Germania hanno motivato questi controlli con ragioni che, non a caso, fanno quasi tutte capo a una minaccia terroristica – reale o immaginata – legata alle pressioni migratorie.
Nel frattempo, la Commissione europea, pur formalmente riconoscendo l’importanza di Schengen, ha proposto una Raccomandazione (un atto del diritto Europeo non vincolante) per una maggiore cooperazione tra gli stati membri. Il suo approccio rimane però tiepido, e senza un vero dibattito, né leadership politica, è difficile che possa esprimere un richiamo efficace all’unità.
In questo contesto, l’esclusione di Romania e Bulgaria da Schengen diventa emblematica. Entrambi i Paesi hanno soddisfatto i criteri di adesione, ma affrontano ostacoli da ricercarsi nelle posizioni politiche nazionali degli stati membri (Austria in testa), con conseguenze economiche e sociali. Un bellissimo articolo di Cristian Gherasim su Euractiv spiega molto chiaramente le problematiche legate alla loro esclusione. Anzitutto, la generazione di costi ambientali: i tempi di attesa alle frontiere causano l’emissione di centinaia di migliaia di tonnellate di CO2 che potremmo invece risparmiare contribuendo al raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica dell’UE; di seguito, costi economici: le economie di entrambi i Paesi, nonché di quelli inclusi in Schengen, beneficerebbero di questa semplificazione; infine, costi in termini di sicurezza: Romania e Bulgaria costituiscono la frontiera sud orientale dell’Unione Europea, attualmente incastrata tra due guerre: quella in Ucraina e quella a Gaza. Quest’ultimo aspetto, per altro, va ben oltre la posizione geografica dei due Paesi. Per esempio, nonostante le condizioni umanitarie a Gaza abbiano raggiunto livelli che hanno scatenato campanelli d’allarme da più parti, l’Unione Europea non ha saputo mostrare una posizione unitaria, indebolendo la sua stessa posizione sulla scena internazionale.
In conclusione, Schengen è più di un accordo; è un simbolo di unità e il tracciato da seguire per una democrazia europea forte e in salute. Dobbiamo proteggerlo e rafforzare le fondamenta su cui si basa l’UE, superando per esempio il meccanismo di unanimità e del diritto di veto – che hanno consentito l’esclusione di Romania e Bulgaria da Schengen fino ad ora, da parte di governi nazionali, per mere ragioni di convenienza politica interna – per passare a quello della maggioranza qualificata.