Il Museo di Beit Beirut ospita la mostra collettiva che esplora gli scenari presenti e futuri del Libano. FACE Magazine.it ha incontrato Delphine Abirached Darmency, direttrice del progetto.
Da Beirut: Luca Fortis
La capitale libanese, nonostante la crisi ormai quasi permanente, rimane uno dei posti più culturalmente vivi del Medio Oriente e del Mediterraneo. Chi si trovasse in questo periodo a Beirut, non può assolutamente mancare la mostra “Allo, Beirut?”, l’esposizione “pubblica” immersiva e interattiva ospitata dal Museo di Beit Beirut, fino a fine giugno. Situato nel cuore della capitale libanese, il Barakat Building, noto anche come Beit Beirut, rappresenta un crocevia, sia geograficamente che simbolicamente. Situato sull’ex linea verde che divideva la città durante la guerra civile libanese (1975-1990), l’attuale Beit Beirut Museum era un ex covo di cecchini.
Essendo cittadini di un “paese affetto da amnesia”, scrive Roy Dib, curatore della mostra, “ci manca la conoscenza della nostra storia. Una storia spesso romanzata quando si parla di Beirut e dei suoi cosiddetti anni d’oro. Ironia della sorte, abbiamo trovato il modo di esplorarlo attraverso le rovine di uno dei locali notturni più famosi del Libano. Negli ultimi dieci anni”, prosegue, “abbiamo raccolto gli archivi dimenticati di Prosper Gay-Para (1914-2003) da sotto le macerie della sua discoteca abbandonata “Caves du Roy”. Per lo più sconosciuto al pubblico, Gay-Para era un visionario del suo tempo. Ha dedicato i suoi anni alla costruzione di un Libano migliore basato su politiche pubbliche e giustizia sociale”.
Noi di FACE Magazine.it abbiamo intervistato a Beirut, Delphine Abirached Darmency, direttrice del progetto. Delphine è laureata con master in Affari Internazionali (Università della Sorbona, Parigi) e in giornalismo (Università del Libano, Beirut) e ha iniziato a lavorare come giornalista nel 2010 in Libano. Ha curato, tra l’altro, una rubrica sui luoghi della memoria di Beirut come vecchi cinema, teatri, strutture psichiatriche dimenticate o alberghi abbandonati. Nel settembre 2016 si è trasferita a New York City, iscrivendosi al programma annuale di giornalismo televisivo presso la New York Film Academy.
Nel 2017 ha fondato una società di produzione video chiamata “Beyond the Road Productions” per produrre documentari, racconti brevi e lunghi su una serie di argomenti che includono società, donne, giustizia sociale e altro ancora. In questo periodo sta scrivendo un libro sulla vita di Prosper Gay-Para.
Delphine, mi parli della mostra?
È pensata per il grande pubblico nel tentativo di offrire un migliore accesso alla cultura per tutti ed è progettata da attivisti, artisti e giornalisti libanesi, si tratta di un progetto multidisciplinare che si occupa di cambiamenti sociali, arte, giornalismo investigativo, giustizia sociale ed educazione.
Il progetto è basato su documentazione investigativa combinata con esperienze sensoriali e immersive, la mostra mira a utilizzare l’arte e il giornalismo per consentirci di coltivare un senso di appartenenza, mettere in discussione il passato e immaginare il futuro per il Libano.
Come nasce il progetto?
Mia madre è libanese, ma sono cresciuta fuori dal Libano. Sono giornalista e avendo una rubrica sulla memoria di Beirut, essendo la città piena di palazzi abbandonati dalla guerra, ho fatto molti progetti su questo. Un giorno il mio responsabile mi ha detto che a Beirut c’era, prima della guerra, un famosissimo club che si trovava nel hotel Hexcelsior. Il club si chiamava les Cave du Roi. Il giornale mi ha chiesto di entrare nel rudere di quello che restava del club per prendere delle foto. Sono quindi entrata e nonostante non sia molto affezionata al concetto della dolce vita libanese o alla vita notturna del paese, entrare in un hotel abbandonato in riva al mare, è stato comunque emozionante. Anche se tutto era sotto sopra e moltissimo era stato rubato durante la guerra civile libanese, erano rimasti moltissimi archivi dentro l’albergo buttati per terra.
In pratica per rubare i mobili, avevano svuotato e buttato a terra tutto quello che contenevano.
Ero entrata con un amico fotografo, Stephane Lagoutte. Sotto dei materassi abbiamo trovato dei negativi di foto. Il mio amico ha preso i negativi e io sono tornata decine di volte nell’hotel.
Giorno dopo giorno sono nati due progetti paralleli, io mi sono appassionata alla storia di Prosper Gay Para, proprietario del Club e il mio amico dei negativi delle foto trovate per terra che rappresentavano le persone passate nel club e nell’hotel.
Negli ultimi dieci anni abbiamo quindi raccolto gli archivi dimenticati di Prosper Gay-Para (1914-2003) da sotto le macerie della sua discoteca abbandonata “Caves du Roy”. Gay-Para era un visionario del suo tempo. Ha dedicato i suoi anni alla costruzione di un Libano migliore basato su politiche pubbliche e giustizia sociale.
Già all’epoca, negli anni 60, aveva capito che sotto le ceneri di quello che tutti consideravano e considerano l’epoca d’oro del Libano, covavano problemi inestricabili. Sosteneva che nonostante ci fossero ottime università e settori molto sviluppati, tutto era messo in pericolo dalla mala politica e dalla corruzione.
Avendo compreso questo, propose prima dello scoppio della guerra civile, molteplici riforme sottolineando la mancanza di volontà politica e la mediocrità in Libano.
Aveva compreso i germi di questi problemi che stiamo affrontando ancora oggi, nel 2023. Nelle sue proposte di riforme, sia politiche che finanziarie, non parla mai di partiti politici o di gruppi religiosi, lui che era mezzo francese e siriano, ma si sentiva libanese.
Non appartenendo a nessuna comunità, ma sentendosi libanese, paradossalmente riusciva a vedere il paese nella sua complessità e voleva svilupparlo da Tripoli fino a Tiro. In questa storia vi è anche un po’ d’Italia, infatti, la persona più emblematica delle Cave du Rois, era il bar tender Aldo Mancini, che tutti adoravano e ancora si ricordano di lui. Inoltre Prosper Gay Para ebbe la medaglia al merito della Repubblica Italiana.
Una storia molto interessante quella di Prosper Gay Para, vi ha permesso moltissime riflessioni, me le racconti?
Quello che ci interessava non era tanto dire che avesse ragione, ma innescare un dibattito sull’oggi, attraverso il racconto del pensiero di Prosper Gay Para sugli anni Sessanta e quello che è avvenuto dopo.
Durante la rivoluzione e le manifestazioni del 2019, molti pensavano che fosse la prima volta che accadesse nel paese una protesta del genere.
Studiare la storia di Prosper Gay Para ci ha spinto a studiare meglio gli anni 60 e ci siamo resi contro che il Libano era un teatro politico vivo, in cui le manifestazioni erano all’ordine del giorno e in cui alcuni pensatori avevano idee politiche perfino più avanzate di quello che accade oggi. Ecco perché nella mostra, nata grazie al prezioso aiuto dell’artista, filmaker e curatore Roy Dib, che ci ha aiutato a selezionare gli artisti, che hanno poi proposto, ispirandosi alla storia di Prosper Gay Para, del suo club e dei negativi delle foto ritrovati, una serie di lavori che raccontano la storia libanese di oggi.
Abbiamo trovato migliaia di negativi tra le rovine dell’hotel Excelsior e anche all’interno del negozio di fotografie, Photo Mario che si trovava all’interno del palazzo Beit Beirut, in cui ora si tiene la mostra. Questi negativi sono capsule del tempo e riflettendo con tutti i collaboratori di questo progetto ci siamo resi conto che rappresentano allo stesso tempo gli anni prebellici in cui sono state scattate le foto, il “tempo di resilienza” in cui sia l’edificio che l’hotel sono stati abbandonati durante e dopo la guerra, il tempo in cui sono stati trovati e raccolti e il tempo che potrebbe arrivare nel futuro, nel momento i cui le foto potrebbero essere identificate dalle persone che riconoscono se stessi o la loro famiglia, amici o vicini.
Nel piano terra della mostra i visitatori possono scoprire i negativi in tre formati: i negativi stessi, le copie delle foto digitalizzate e le interpretazioni che ne hanno fatto gli artisti attraverso la serie fotografica Beirut 75-15 di Stephane Lagoutte.
Che rapporto avete con il palazzo in cui si tiene la mostra?
Un’altra fonte di ispirazione per noi è la storia dell’edificio in cui si tiene la mostra, il Barakat Building, ora chiamato il Beit Beirut. Il palazzo, pesantemente danneggiato durante la guerra civile, è stato salvato grazie al lavoro di Mona El Hallak, un architetto e attivista per la conservazione del patrimonio, che vive a Beirut, laureata all’Università americana di Beirut (AUB) e alla Syracuse University – Florence Program. Mona ha fondato il suo studio di progettazione architettonica nel 2001 e nel 2017 è entrata a far parte di AUB come direttrice della Neighbourhood Initiative (AUBNI), il cui scopo è promuovere la vivibilità, la vitalità e la diversità di Beirut, incoraggiare la cittadinanza critica e attivare il pubblico spazio e coinvolgere la comunità nel rivendicare il proprio quartiere. Mona ha guidato diverse campagne di conservazione del patrimonio ed è riuscita a preservare il Barakat Building – ora Beit Beirut, trasformandolo in un museo della memoria e un centro culturale e urbano. Nel restauro del palazzo si è deciso di lasciare tracce dei danneggiamenti della guerra dovunque.
Vi hanno affidato il museo?
Oggi è un museo pubblico, anche se mancava la gestione, questo ci ha spinto a creare, per questo museo, una mostra immersiva e divulgativa per il grande pubblico, che uscisse fuori dal perimetro delle mostre di arte contemporanee per abbracciare un pubblico ancora più vasto. Abbiamo un patto con la municipalità che ci ha concesso temporaneamente lo spazio, la mostra è stata poi possibile attraverso finanziamenti privati.
Molti degli artisti parlano di veri e propri drammi, ma lo fanno usando l’arma dell’ironia e del gioco. Una scelta molto libanese, me ne parli?
La mostra riflette sulle tragedie che hanno colpito il paese, dalla guerra civile, alla crisi politica perenne, ai problemi del settarismo, alla bancarotta, ma lo fa molto spesso attraverso il gioco, in modo molto ironico, come fanno sempre i libanesi per esorcizzare i drammi di questo paese.
Mi racconti qualcosa che è avvenuto durante l’organizzazione della mostra che ti ha emozionato?
Ci sono molte persone che hanno fatto parte del progetto che sono andate via dal Libano e hanno deciso come ultimo regalo al paese, prima di emigrare, di partecipare a questo progetto, proprio come arrivederci prima di andarsene. È stato davvero molto toccante, è accaduto almeno quattro volte.
Mi parli delle opere della mostra?
Molte delle opere della mostra riflettono sulla rivoluzione del 2019, sull’emigrazione di massa dei libanesi e sulla loro vita all’estero, sui quartieri che esistevano un tempo, prima, durante e dopo la guerra e sulla loro composizione sociale, sulla bancarotta delle banche libanesi di questi ultimi anni e sul congelamento dei soldi dei correntisti. Altre ancora riflettono sulla speculazione edilizia che ha cancellato tanti immobili storici, quanti ne ha cancellato la guerra e sulla crisi ambientale nel paese. Altre ancora sul settarismo e come si rifletta in diverse possibilità di riuscita nella vita a seconda del gruppo in cui si nasca, alcune opere riflettono sulle distruzioni che in diverse decadi hanno raso al suolo il porto di Beirut.
Vi sono poi opere che riflettono su come funzionava la pubblica amministrazione negli anni pre-guerra e altre sui piani immaginati o attuati per la ricostruzione post guerra.
Una parte della mostra, continuando questo fil rouge che collega il passato al presente, riflette sulla vita quotidiana degli anni Sessanta, sul dibattito pubblico dell’epoca e sulle speranze dei libanesi.
Spesso le opere permettono al visitatore di giocare con esse, non perdendo mai quel sottile velo di ironia e gioco che i libanesi da sempre utilizzano per esorcizzare la vita in un paese e in un’area geografica così complessa.
Consiglio a chi non possa venire a vedere la mostra a Beirut, di guardare il nostro sito internet in cui è possibile leggere una descrizione di tutte le opere.
allobeirutexhibition.com