Canti e balli per bruciare re Carnevale: una tradizione secolare che a San Marzano sul Sarno porta in piazza cantrici e femminielli, per salutare la fine dell’inverno.
Testo e foto di Luca Fortis
Il cadavere di Vicienz’ O Carnuale, detto “Carnualone” giace sul feretro sotto le belle arcate antiche, su cui si vedono i segni del tempo, tra vene, cicatrici e rughe, che ricordano la vita trascorsa. Il centro di San Marzano sul Sarno è un fiorire di cortili e corti, in gran parte sopravvissute al terremoto dell’Ottanta, che si rincorrono l’un l’altra.
Accanto al corpo di Vicienz’, in realtà un pupazzo con una maschera, si erge una signora anziana, che gioca il ruolo della moglie. Parla al morto, alterna urla da prefica, con discorsi rivolti a Vicienz’ Carnuale, a volte seri, a volte ironici. In un crescendo in cui l’ironia si mescola sempre di più alle lacrime.
La moglie chiaramente possiede una disincantata e ironica capacità di comprendere la vita, le doti, anche sessuali, e i difetti del marito. Vicienz’ Carnuale, appena defunto è chiaramente l’anno vecchio, nel senso dell’anno agricolo, della morte dell’inverno.
Piano piano arrivano altre signore anziane, che vengono a fare le condoglianze, piangono, ma allo stesso tempo rimpiangono la perdita di un uomo con cui si sono divertite. Lo dicono alla moglie, per farle comprendere che anche per loro è una gran perdita.
A un certo punto portano una bottiglia, provano a metterla al posto del pene di Vicienz’, ma la vedova alla fine decide che è più consono mettergli un bel cero spesso. Aprono la patta e sul pube gli piazzano il cero. Pian piano, bambini, nonni, ragazzi di paese e intere famiglie si accalcano. Sono in attesa che qualcosa avvenga. In un crescendo, delle sedie vengono sistemate intorno al feretro.
Da lontano si cominciano a sentire lamenti acuti, rumorosi. La gente inizia a ridere, attendono con impazienza.
Ecco la folla aprirsi come un mare, tra strilli e lodi alle “doti” del morto, arrivano un gruppo di anziane, cantori e cantrici di Tammorra e di femminielli. I vestiti sono vistosi, perfetti per il funerale del carnevale, i canti antichi, come solo le signore di questi vicoli sanno esserne custodi, l’ironia pungente, viva, doppia, come lo possono essere le donne e i femminielli di questa terra.
Il loro è un urlo antico, che ha radici greche, un inno alla natura che muore e torna fertile. In cui morte, rinascita, fertilità e sessualità vanno a braccetto. In cui la tammorra, antica musica greca e i canti, diventano il battito della terra, dell’Agro Nocerino.
Le condoglianze si fanno strepitoso ricordo della dirompente sessualità di Vicienz’, di come tutti ne hanno goduto. Tutti ringraziano la vedova per il regalo che gli ha fatto condividendo il marito. A tratti si divincolano per la disperazione, per la perdita irreparabile, piangono disperatamente. Poi di colpo, come un tuono, riparte lo scambio delle battute, pungenti e reciproche, con la vedova.
Ogni tanto qualche nuovo ospite viene a portare altre condoglianze, nuovi vestiti, degni di un momento così sacro, appaiono nel cortile.
Il cero posto nella cerniera dei pantaloni di Vicienz’ Carnuale, viene sfruculiato, un po’ da tutti.
Antichi canti vengono intonati. Biagio De Prisco, storico cantore e organizzatore del funerale del carnevale, ci ricorda come le voci delle signore anziane, sono ancora le vere voci della tradizione. Voci antiche, tesori unici, oro che sgorga in un cortile splendido, popolare e ricco di cicatrici del tempo.
La vedova è Anna Foggia detta “Nanninella”, gli amici e le cugine, sono Maria Pelosi, detta “Maria a Barona”, Raffaele Schiavone, Zii Luigi, CiroCiretta, Michele Manzo, Ciro Bianchi, Pasquale Presutti, Anna Cortese, Bruno Buoninconti.
Nel frattempo la folla si accalca, si fanno passare avanti i bambini per fargli vedere meglio.
Disperazione, fulminanti battute, canti elettrizzano l’aria in un folgorante crescendo. L’aria è umida, le nuvole plumbee si alternano alle stelle, ogni tanto, il cielo scarica un po’ di pioggia. Ma poca, il cielo ha graziato il funerale di Vicienz’.
Di colpo le donne e i femminielli si agitano, un susseguirsi di veli neri cominciano a ricoprire le teste, si agitano, piangono, urlano in modo isterico con la voce strozzata: “Ma chi’va chiammat? Iatvenne, iatvenne. Ascit fora ‘da casa nostra!“
Il susseguirsi di teste velate di nero che si agitano attorno al feretro, sembrano volerlo trattenere. Sono il segno che da lontano si avvicinano i portatori che lo porteranno via, prima della cremazione.
Le teste velate di nero che si agitano, diventano un mare in tempesta, in cui onde burrascose accerchiano il feretro, che diventa una nave in balia delle onde, diretta verso l’aldilà.
Sembra una visione di un funerale dell’antica Grecia o persiano o libanese. Uno di quei funerali mediterranei in cui le prefiche velate di nero, urlano e piangono, perché non vogliono ancora consegnare il caro estinto alla morte.
Alla fine cedono, i portatori, giovani ragazzi di San Marzano sul Sarno dal corpo vigoroso: hanno vinto, Vicienz’ parte in processione per essere salutato da tutto il paese. L’orchestra esplode in una musica ritmica, allegra, liberatoria. I suonatori, spesso ragazzi, improvvisano pezzi con le trombe, tutti ballano. Le anziane cantrici e i femminielli, alternano ballo e pianti disperati attorno al feretro.
Il corteo funebre, scosso da un’elettrica allegria, scorre nelle vie del paese, come sangue e linfa, che ricordano che dopo la morte, vi è ancora nuova vita. Dopo l’inverno arriva la primavera. Chi non balla per strada si affaccia alle finestre, rende omaggio a Vicienz’.
A un certo punto, una pioggia scrosciante scende dalle plumbee nuvole, il feretro di Vicienzo, i portatori, le anziane cantrici, i femminielli e il popolo si riparano, bagnati e allegri, sotto i porticati di palazzi moderni. Ridono, suonano, fanno battute.
La pioggia torrenziale finisce presto, il corteo riparte verso il centro storico, più ci si avvicina al cortile dove si era tenuta la veglia funebre, più la musica è fragorosa.
Da lontano si scorgono già le fiamme in cui verrà bruciato il pupazzo di Vicienz’ Carnuale.
Il feretro viene deposto, anziane e femminielli, sempre più antiche prefiche, urlano, si agitano, si disperano sempre di più.
Il corpo viene dato in pasto alla fiamme, suonano liberatorie le tammorre, si scatena l’antica danza, allegra, combattiva, viva. Il fuoco purifica le fatiche dell’anno vecchio, dell’inverno senza foglie e annuncia il ritorno della primavera! È la vita dopo la morte, il sangue che torna a scorrere, il cuore che torna a battere, in un eterno ciclo vitale. Le tammorre, i movimenti dei corpi che ballano, che vivono, che cantano, si confondono con il colore delle fiamme.
Il ciclo della vita e della fertilità prosegue la sua eterna corsa.