Giovane, carino, ma non disoccupato. Pietro Roffi infatti si è già esibito in giro per il mondo con la sua fisarmonica e la sua musica: dall’Inghilterra alla Cina, dall’Argentina alla Lituania, sconfinando non solo con la geografia, ma anche con i generi musicali. Sperimenta il Tango di Piazzolla come testimonia il progetto Tutto Tango insieme al pianista Alessandro Stella, ma anche le Variazioni Goldberg di Bach e persino le Sonate di Scarlatti, incide anche la colonna sonora del film “Nome di donna” di Marco Tullio Giordana e non si ferma qui. Dopo il debutto con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in un concerto in onore di Ennio Morricone per i suoi 90 anni, torna ancora all’Auditorium Parco della Musica di Roma il prossimo 2 dicembre con il suo nuovo progetto. L’occasione è l’uscita del primo album “1999” composto e interpretato dallo stesso Roffi: dieci brani originali in cui l’elemento acustico ed esotico espresso dalla fisarmonica si fonde con l’elettronica. Il risultato è un suono unico che non appartiene a un tempo o a un genere preciso. Fluida, come le identità dei più giovani fra i Millennial, sensuale e malinconica al tempo stesso: nella musica di Roffi riemergono i ricordi, le speranze, i sospiri di un passato e di un presente emotivo, ma anche le influenze della musica da film, del folk, a tratti perfino un po’ di techno. In Auditorium lo abbiamo incontrato, fra una prova e l’altra, per conoscerlo meglio.
Come hai iniziato con la fisarmonica?
Era l’estate del 99. In una festa di paese con la mia famiglia e mi ricordo di aver visto e di essere rimasto affascinato da un fisarmonicista che suonava. Amore a prima vista: una folgorazione. E la sera stessa ho chiesto a mio padre di prendere delle lezioni e dopo un mese ho iniziato. Era il 21 settembre 1999, me lo ricordo perché è la data presente nel mio primo quaderno di teoria musicale. È iniziato tutto così. Poi su questa stessa pagina c’è anche il contorno della mia manina per riconoscere le note sulle dita e sugli spazi della mano. Sono ricordi molto belli. Questo è stato il vero e proprio inizio, perché nessuno a casa faceva o ha mai fatto musica. È iniziato tutto da un’intuizione.
Hai ancora un contatto emotivo con quel momento oppure la professionalità ti ha allontanato, facendoti concentrare su altro?
Secondo me è ancora preponderante l’aspetto emotivo. Perché il carburante è sicuramente quello. Poi è ovvio che pian piano ci si può allontanare, per certi aspetti, da quella istintualità o ingenuità che agli inizi è al 100%. A volte me la faccio anche da solo questa domanda e la risposta è sempre la stessa: fare la musica che mi piace veramente mi mantiene in contatto con quel momento. Scarto infatti i concerti che non mi piacciono per evitare i tecnicismi. Senza emotività sarebbe tutto molto triste. La professione ti fa passare molto tempo a essere “professionale” badando a cose che hanno poco a che fare con la musica di per sé. Ma quando suoni davanti al pubblico non può non esserci l’emotività… pensi a chi c’è in sala e temi che ti possa giudicare, allora lasci i tecnicismi e ti fai trasportare dalla musica e dalla tue emozione.
Quanto conta la tecnica per un musicista di professione? Quanto tempo dedichi ogni giorno allo studio?
La tecnica intesa come l’essere artigiani del proprio mestiere e conoscitori dello strumento (non quella della digitazione e del virtuosismo) è molto importante, perché ti corazza per tutte le eventualità che ti si pongono davanti. Semplicemente hai più possibilità di salvezza. Se conosci lo strumento o la prassi esecutiva sei più pronto ad affrontare un pezzo o una partitura. La conoscenza è un fattore importante soprattutto nei primi anni. All’inizio bisogna studiare e basta. Non c’è modo di interpretare. Un bambino di 10 anni come fa a interpretare un brano di Mozart? Per una visione personale serve più tempo, serve l’esperienza umana. Il tempo che dedico allo studio dipende da tanti fattori: l’organizzazione, l’umore, la data come ricorrenza o altro, la stagione, gli impegni. Certamente non si può stare un giorno senza suonare perché si torna indietro. Capita a volte. Perché viaggio o ho appuntamenti per i concerti. Ma poi le mani sullo strumenti le metto sempre. Anche la sera. Perché è autodisciplina. Se ho un concerto importante ci sto 8/9 ore al giorno… poi, i giorni successivi un po’ di riposo non guasta. Nello studio l’importante è non affrontare i brani in maniera sterile. A volte in un’ora si può fare quanto altri fanno in 10 ore. Dipende molto dal buon umore. È una cosa molto variabile. Almeno per me.
Quanto è importante la capacità di provare e di trasmettere emozioni attraverso la musica? Hai un training anche per questo?
Questa è la parte più interessante. Effettivamente un musicista quando interpreta per la 100a volta in pubblico, si provano emozioni,ma sono diversissime dalla prima volta in cui hai creato quella melodia o ascoltato per la prima volta un testo nuovo. Questo perché dobbiamo restare concentrati e mantenere la tecnica: non possiamo essere ubriachi di emozione e basta. Se no suoneremmo per gli amici dopo una cena e non in una sala da concerto. Però anche in quel caso, fra gli amici, non si suona mai senza pensare. È un mix complesso, spesso contraddittorio.
Per trasmettere le emozioni il passo è successivo. Non c’è training. C’è differenza fra musicisti che ti emozionano o no, o quello che ti fa piangere e un altro che non lo fa. Durante i concerti non emerge solo il musicista, ma l’artista-uomo con tutto quello che ha dentro. Qui le note non sono importanti, la capacità di trasmettere emozioni va oltre. C’è l’esperienza personale, la passione, il modo in cui tu concepisci l’opera. Cose che non puoi imparare, osservi chi ti emoziona e cerchi di capire perché ti emoziona e di riprodurlo a tuo modo. Già solo il sedersi di un artista può emozionarti e questo non te lo spiega nessuno. Il discorso diventa complesso… quasi filosofico. Il direttore in concerto trascina, ma quello che segui è quello che ti trasmette prima di prendere la bacchetta. In concerto noi impersoniamo chi siamo, come in uno specchio!
Che sacrifici hai fatto, nella vita personale, per la tua scelta?
Sicuramente ne avrò fatti tanti. Il bello è che neppure me ne sono accorto. Ho iniziato da piccolo, per cui sono cresciuto con questo impegno. Io ho fatto elementari, medie, liceo… portando avanti un duplice impegno: scuola, dove andavo bene, e la musica. Come fare due scuole insieme in realtà. Sono dentro a tutto questo da 20 anni e io ne ho 27… già dice molto. I miei amici, alle elementari, andavano a casa e vedevano i Simpson ma io non potevo perché il pomeriggio era breve: io dovevo fare solfeggio, teoria e studiare la fisarmonica. In alcuni passaggi dell’adolescenza qualcosa mi è mancato. Ma non sono sacrifici… io i Simpson li ho rivisti da grande, non mi è cambiata la vita. Però è cambiata quando il “sacrificio” mi ha permesso di fare il mio mestiere, quello che avevo scelto. Ero un bambino normalissimo che a volte non aveva voglia di studiare il solfeggio. La mia famiglia non mi ha mai obbligato, casomai mi ha motivato. Però io le lezioni le vedevo come un impegno serio. Forse quando gli amici uscivano il sabato pomeriggio e io studiavo la fisarmonica… poi la domenica studiavo e ritornava lunedì, allora l’impegno si faceva sentire… ma nulla di tragico. Oggi la difficoltà è avere una relazione. Perché stare con una persona mi mette in una forma di stasi, quindi mi devo sacrificare. Ho bisogno di grandi stimoli e non sempre riesco a trovare chi sa starmi al passo. Eppure mi piacerebbe… però in questo caso sacrifico più volentieri questo lato della vita in favore del mio lavoro. Studiare costa tanta fatica emotiva e io non riesco a bilanciare questi due aspetti.
Hai vissuto dei momenti difficili in relazione a questo?
Si, ma più sul fronte personale che con l’altra persona. Questa cosa del dare tutto alla musica lo recrimino più a me stesso che agli altri. Ero più io in cerca di altro. E preferisco stare solo, senza pensare agli impegni di coppia che ti fanno perdere la strada. Probabilmente non è valsa la pena, per ora.
Ascolti altra musica?
Sì ascolto di tutto. Veramente di tutto. Dalla classica alla trap al pop e ai cantautori. Uno dei miei artisti preferiti è Jovanotti. Lo reputo un musicista interessato a migliorare sempre. Riesce a metterci nelle sue creazioni sempre spunti di qualità. Spesso vorrei non ascoltarla la musica perché gli impegni sono già pieni di musica… e ho bisogno di staccare a volte. L’altro ieri registravo la colonna sonora di Pinocchio di Garrone e la mattina e la sera prima ho scelto di non avere nessuno stimolo esterno. Perché il silenzio aiuta moltissimo a ripulirsi e mettere al centro quello che vai a fare in studio. Questo accade perché per i musicisti che, come me, hanno l’orecchio assoluto trovare musica ovunque toglie concentrazione e snerva: per me non hanno aspetto sempre gradevole questi suoni, ma sto sempre lì inconsciamente a elaborare dati.
Dove prendi l’ispirazione per le tue composizioni?
Questi pezzi che sono usciti in “1999” sono i primi ufficiali e registrati, ma ci sono altri che ho scritto e usciranno il prossimo anno. Ci sono tre filoni: uno è quello della mia infanzia, atmosfere più antiche di quello che sono io, un po’ sgranate e un po’ lontane; poi le sensazioni di alcune emozioni specifiche, come un pensiero ossessivo o uno scatto d’ira o della nostalgia. Emozioni definite ma anche indefinite allo stesso tempo che mi fanno buttare al piano o alla fisarmonica. Il terzo filone è quello dei viaggi dove tutto si fonde: incontri persone, esperienze sorprendenti, sei suggestionato dalle città, dai paesaggi, dai profumi. La mente resta sempre un po’ lì. In 1999 ci sono pezzi dell’infanzia, pezzi molto emotivi, come la nostalgia, tipica della notte, e poi ci sono altri che si ispirano a paesaggi o persone conosciute. Per esempio un pezzo è dedicato al cielo notturno di Rio e un altro “Est Ovest” a un viaggio fatto dall’Abruzzo a Roma. È un diario, non c’è un filone unico. Un giorno lontano riascoltando questi pezzi mi ricorderò queste esperienze o queste sensazioni.
Pensi che il tuo lavoro possa avere risvolte etiche oltreché estetiche?
Non lo so. Sicuramente la musica qualcosa causa, non so in che misura perché poi dipende come la veicoli, se sei prepotente, se trasmetti un messaggio preciso. Metto semplicemente in mostra quanto mi è capitato con la musica, che è la mia lente. Alla gente piace e può esserci un risvolto pratico per alcune persone. Non so quanto la musica sia responsabile. Potrebbe avere grossi risvolti etici o essere indifferenti. Al momento mi piace pensare che la musica (la mia musica) sia ascoltata ovunque e possa avere un risvolto personale. Senza che io sia portavoce di un messaggio che forse non sono nemmeno pronto a portare. Quello che posso dire è che lo strumento che suono è fra i più democratici: viene dal basso e io faccio parte, come la mia famiglia, di una visione molto semplice dal punto di vista etico e non politico del mondo. Forse questo si percepisce anche dalla musica, credo. Se un giorno la mia musica potrà farsi ascoltare, io non mi tirerò indietro! Il mio sogno è suonare Bella ciao il primo maggio con la fisarmonica!
Che considerazione hanno i musicisti in Italia?
Un classico è “ah suoni la fisarmonica? E di lavoro?”. Deprimente. Spesso anche fra i giovani nessuno crede che si possa vivere di musica. Meno assai con la fisarmonica. Molto dipende dall’estrazione sociale o, meglio, dal livello culturale. Molti forse hanno capito che si può vivere anche con la musica. Altri non lo capiranno mai: amen! Sicuramente in Italia il musicista è figo quando fa il concerto e quando la persona è di buon umore… con la crisi ti viene da dire “vai a lavorare”. La musica è poesia e dopo aver suonato non esiste più. In questo momento storico il musicista viene visto come inutile perché fa cose che non servono realmente. Qualcuno capisce che non è così… altri parlano di faccende più pratiche e quindi di te e dei musicisti non hanno grande considerazione. Ma solo perché non sanno.
Hai un sogno nel cassetto?
Diversi. Uno in particolare: quello più bello per tutti noi. Vorrei rivedere a breve la fisarmonica compresa un po’ meglio dal pubblico e non solo associata alla musica popolare. Vorrei che si abbia una maggiore consapevolezza di questo per sentirmi più figo e lavorare di più. (Sorride, ironico. ndr) Questo è il mio vero obiettivo: rendere la fisarmonica lo strumento di tutti.
Sei felice?
Si. Assolutamente. Non mi manca nulla. Ma il tema della felicità ci farebbe aprire un’altra grande riflessione. Però oggi sì. Oggi sono felice.
Cosa diresti a un bambino che oggi ti ascolta in concerto?
Questa è l’unica domanda che mi fa riflettere di più. Ascolterei quello che ha da dire lui. Perché le nuove generazioni saranno il pubblico del futuro: sarebbe un’occasione per parlarci e per capire se loro hanno realmente apprezzato. Ascolterei qualche consiglio più da lui e non dagli adulti. Per capire a cosa l’ho fatto pensare, oltre il ricordo del nonno che suona la fisarmonica. Gli chiederei se il concerto gli è piaciuto. I figli di mio cugino ascoltano il mio cd senza saper leggere. Chiedono le tracce ai genitori: questo mi fa sperare. Le risorse sono lì, non in quelle persone che già hanno una formazione.