Tallahassee, Florida. Il 17 novembre, il regista e attivista Fred Kuwornu è stato ospite del dipartimento di Modern Languages & Linguistics presso la Florida State University. Da circa sei mesi, il film-maker sta presentando Blaxploitalian nelle università e negli istituti di cultura italiana in giro per il mondo. Il suo film celebra cento anni di presenza di attori neri nel cinema italiano e racconta l’evoluzione dei loro ruoli, tutt’oggi decisi attraverso il filtro sociale degli stereotipi di genere, di razza o di credo. “Il cinema può cambiare l’atteggiamento passivo dei cittadini e far sviluppare in loro uno spirito critico necessario per uscire dagli stereotipi,” ha detto Kuwornu. “Alcune serie su Netflix ci stanno riuscendo meglio rispetto a quelle italiane. Nessuno sta pensando in questo momento a come rinnovare l’industria cinematografica italiana, che ad essere onesti è molto meno globale di quella americana. Spesso molte persone vi lavorano da più di quarant’anni e non danno molte possibilità a nuovi produttori, nuovi attori e talenti. Un problema di nepotismo più che un problema di pregiudizi”.
Fred Kudjo Kuwornu, nato a Bologna nel 1971 da padre ghanese e mamma bolognese, è l’autore di due documentari di successo, Inside Buffalo (2010) che ha ricevuto gli apprezzamenti del Presidente Barack Obama, di Bill Clinton, nonché del presidente Giorgio Napolitano, e 18 Ius Soli (2012) in cui si raccontano storie di ragazzi di seconda generazione, una risorsa immensa per un paese come l’Italia.
(In foto: Fred Kuwornu)
Downtown-Tallahassee non è caotico come Brooklyn-NY; la comunità è molto piccola, somiglia più a un paese che a una città, e c’è sempre un clima cordiale e amichevole anche tra chi non si conosce. Mentre chiacchieravamo seduti sulle due enormi poltrone bianche davanti all’ingresso dell’hotel, come due re della strada, ci sono passate davanti più volte le stesse persone e dalla seconda volta in poi ci hanno anche sorriso. Fred Kuwornu è uno di quegli uomini che nasce con una missione, una specie di marinaio della comunicazione, e poi ne fa la sua ragione di vita.
Credi che sia vero che – come dice Scarpati – gli italiani hanno perso la memoria?”
Fred Kuwornu: È vero che c’è una perdita da parte della popolazione italiana del suo passato di emigrazione. Ma non solo di emigrazione. Io ho la sensazione che questo sia un fenomeno purtroppo antropologico; tanti popoli emigrano o sono costretti a una diaspora – mi viene in mente anche la diaspora ebraica – e fino a un certo punto acquisiscono una sensibilità per quello che è l’altro. Ho la sensazione che il discorso non valga solo per gli italiani ma anche per altri popoli. Anche se l’italiano è il popolo europeo che forse è emigrato in più paesi. Ed è anche quello che emigrando ha dovuto iniziare percorsi davvero difficili rispetto ad altri popoli come gli inglesi, già presenti ad esempio in Australia, e divenuti la classe dominante.
I media si potrebbero intendere come dei connettori educativi. Ma a volte sembra che attraverso gli schermi passi piuttosto una verità costruita.
I media sono come le infrastrutture dell’identità, le strade di una città, luoghi in cui puoi vedere transitare altre persone anche senza uscire dal tuo villaggio. Se non esci dall’ambiente in cui vivi, attraverso i media puoi vedere quello che hai intorno. E poi, come tutte le strade, sono anche delle connessioni che portano da un punto A ad un punto B ad un punto C e così via. Aumentando le possibilità di comunicazione di una persona, possono portarla a una crescita educativa e professionale e a ottenere diversi risultati. Risultati più o meno eccellenti, a seconda delle possibilità che questa persona ha di avere un potenziale identitario molto elevato. In questo momento, in queste strade, cioè nei media di adesso, è come se passassero solo un certo tipo di macchine, un certo tipo di guidatori, e l’accesso a tutte le diversità che compongono l’Italia non è consentito a tutti. Le persone che vivono in Italia vedono transitare un solo tipo di messaggio e, oltre a vederlo, aspirano a fare solo quello che vedono. La loro identità, il loro stesso potenziale, le opportunità, ne rimangono compromessi.
Durante il dibattito con gli studenti hai utilizzato spesso l’aggettivo lazy, pigro, quando ti riferivi ai media in Italia.
Certo, questo è anche un discorso molto italiano, ed è un discorso legato al monopolio. In qualsiasi situazione di monopolio c’è sempre pigrizia perché ovviamente non c’è più interesse a dover innovare. E anche se ci fosse da parte di qualche individuo, sarebbe frenato dall’ambiente che lo circonda. È difficile anche come singolo riuscirsi a proporre; immagino uno scrittore, come te, o uno sceneggiatore che lavora in un ambiente magari come la Rai: farebbe fatica, se fosse lui innovatore, perché purtroppo il sistema non glielo consente. Questo ambiente è presente in molti media, che hanno acquisito potere, e ovviamente non solo in Italia.
(In foto: Danny Glover, Fred Kuwornu, Cheryl Isaacs)
L’Italia è già di fatto una società multi etnica. Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay, nella sua ultima visita in Liguria, ha dichiarato che l’immigrazione in Italia rappresenta una salvezza e non una crisi, come viene invece dipinta da certi politici.
L’economia dell’Italia è legata anche all’immigrazione, che è una fonte di reddito, produce il 12% del Pil del paese, ma l’Italia non è un paese che promuove molto la libera impresa. Le piccole attività – che comunque sono dignitose perché fare il kebabaro ad esempio vuol dire aprire un negozio, dare lavoro a un paio di persone – rappresentano al momento un 7/8%. L’Italia, come sappiamo non è un paese in cui si possono investire 50/60.000 euro in una piccola attività, perché tra le tasse e tutto il resto… non si riesce proprio a decollare. Forse in Paesi strutturati come gli Stati Uniti, dove c’e’ la libertà di potere, e forze economiche ben strutturate, sicuramente in questo momento gli immigrati rappresentano una forza di Pil importante e riescono comunque a creare un fatturato di economia interna.
I ragazzi che hai intervistato per 18 Ius Soli, dove lavorano ora, in Italia o all’estero?
Una ragazza è andata a Londra. Valentino ha la Green Card, quindi probabilmente verrà a cercare lavoro o fare un PhD qui, i ragazzi di Napoli sono ancora a Napoli. Diciamo che una metà è uscita dall’Italia. C’è un’intera generazione che, delusa, qualche anno fa ha iniziato ad andar via. A Londra ci sono 500.000 italiani, ma a volte capita che ti giri e la persona che parla italiano dietro di te è nera.
La tua visione globale della memoria traspare in tutti i tuoi lavori, anche se apparentemente parlano dell’Italia. Anche in Black italiano sarà così?
Certo, con Black italiano sarà un po’ come è successo qui alla Florida State: raccontare storie di persone che, o sono transitate in Italia, o hanno i genitori uno italiano e uno africano o afrobrasiliano, e magari sono nati e cresciuti in Brasile, in Canada o in Africa. Sarà un lavoro incentrato sulla multi identità. Ad esempio, a New York ho incontrato un ragazzo eritreo che parlava alla sua bambina in italiano, e mi ha raccontato che ha vissuto dai 3 a i 16 anni in Italia con i suoi genitori che erano rifugiati politici. E adesso con sua figlia e sua moglie, anche lei eritrea, parla italiano, che è la lingua che ha sempre parlato. Mi sono detto che di persone come lui ce ne sono tantissime in giro per il mondo.
Anche questo sarà un progetto lungo, che inizierà l’anno prossimo e si svilupperà su uno o due anni.
Sì, incomincio l’anno prossimo ma sto già lavorando per trovare delle storie, vorrei raccontarne 40. Black italiano nascerà come mini doc: ogni settimana o due rilasceremo una storia di 3 minuti, per un anno e mezzo. E poi, dopo un anno e mezzo, l’idea è di fare un documentario lungo con personaggi famosi, come Alicia Keys, persone che hanno tutte e due le discendenze, anche se magari non parlano italiano, o Kobe Bryant, che ha vissuto in Italia ed è molto legato a questo paese, per poi provocare, per dire che c’è il black italiano come c’è l’asiatico italiano e così via, e che il mondo si sta sempre più internazionalizzando.
Scorporare la nazionalità dall’origine etnica. E adesso invece, continua l’avventura di Blaxploitalian! Dove vai oggi?
Adesso vado a Gainesville, sperando che mi diano la macchina!
Frank Iodice è uno scrittore e giornalista freelance. Teaching assistant presso il Dipartimento di Modern Languages and Linguistics della Florida State University. 10.000 copie del suo ‘Breve dialogo sulla felicità con Pepe Mujica’ sono state distribuite gratuitamente nelle scuole.
Il suo blog è frankiodice.it