Al Mann di Napoli, il 14 e 15 maggio e l’8 e 9 giugno, arriva la mostra “Mosaici di Carta” di Caroline Peyron. La nostra intervista all’artista e al curatore Simone Foresta.
Al Museo Archeologico di Napoli si terrà il 14 e 15 maggio e l’8 e 9 giugno, la seconda e terza tappa della mostra che Caroline Peyron ha pensato per il museo. Ne parliamo con l’artista e con Simone Foresta, docente presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli e presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale e attualmente funzionario archeologo del Ministero della Cultura. Foresta ha curato i testi per la mostra.
Simone Foresta, come nasce il lavoro di Caroline?
Sono immagini formate da tanti piccoli pezzi di carta. Da piccoli frammenti strappati si compone il tutto. Il tutto è spesso un particolare.
Caroline non solo compone, ma scompone, seleziona, assembla, incolla, osserva, ricostruisce, distrugge, integra e disintegra, crea.
Il lavoro è tutto nel solco di un recupero profondo della tradizione antica, fatta di tecnica e studio delle iconografie, così profondamente assorbita e assimilata che può essere per questo stravolta e diventare altro, come dovrebbe essere ogni reinterpretazione del classico.
Alla stregua di ogni lavoro di Caroline, anche Mosaici di carta trova le sue radici più profonde in un perfetto incontro, spesso casuale, tra la cultura figurativa del passato e l’osservazione di sé nel presente. Le scelte delle differenti tonalità delle pagine di una rivista patinata, i millimetrici tagli eseguiti con le punte delle dita, il dosaggio accurato della colla sono le azioni e i gesti di una téchne, cioè di una padronanza delle regole del vedere e del maneggiare, capace di trasformare la carta in pietra, di far nascere nuove immagini da tracce non scritte e di sovvertire ogni possibile schema.
Ma c’è un legame ancora più profondo con il passato nei lavori di Caroline e si ritrova nei meccanismi con il quale esso inconsciamente ritrova la luce e si ripresenta a noi.
Le immagini emergono come i resti di antiche civiltà sopravvissute alla furia del tempo.
Con metodo archeologico si toglie il superfluo, si setaccia l’impercettibile, si raccolgono cocci, si ricostruiscono rapporti, si ricompone la memoria nella forma di nuove immagini, composte esse stesse da frammenti.
Simone, l’archeologia diventa uno strumento per parlare di altro?
L’archeologia diventa il metodo per scoprire tutto il mondo che è stratificato nella memoria di Caroline, non come tentativo rassicurante di decifrare e interpretare il proprio inconscio, ma come strumento per isolare un una parte o un insieme attorno ai quali si costruisce un’idea, un’immagine.
Si realizza così nell’abbandono dei gesti una ritualità che permette a noi che osserviamo di girare attorno a un’infinita serie di segni che forse non necessitano di essere decifrati o svelati. La visione dei mosaici sembra così produrre la stessa impressione che sortisce la scoperta di un’opera a pezzi giunta fino a noi dall’antichità: l’archeologo vive sempre un momento di meraviglia nel momento in cui si lascia abbagliare dal reperto venuto alla luce improvvisamente. Il bagliore del tempo lo travolge, riconosce ciò che non può ancora comprendere, ma di cui avverte tutta la potenza e la ricchezza.
Caroline, che emozioni senti quando crei un mosaico di carta?
Sono portata da un flusso di cui poco so tranne il piacere. Un’onda che mi ha trascinata nel secondo lockdown del 2020 fino al mese di luglio del 2021, senza cedimento. Ho lavorato con “restes”, frammenti, ho messo insieme colori che “passavano inosservati”. Mi torna sempre in mente questa riflessione di Aurélie Neumours: “Non c’è niente da vedere e questo non passa inosservato“. In questi lavori l’onda creativa è nata dalla meraviglia.
Il mosaico è presente da Ur, Uruk 3000 ac, in Egitto, nel mondo minoico e così via fino ad oggi. Mentre lavoravo, scrivevo con piacere liste di luoghi: Delos, Palestrina, Roma, Leptis Magna, Tolemaide, Rivoli, Pompei, Ercolano, Chiusi, Otranto, Piazza Armerina, il Pardo, Aquilea. Lista che poi è cresciuta a dismisura dopo la lettura sull’iconoclasmo bizantino di André Grabar e quello sull’ornamento nell’arte islamico di Oleg Grabar.
Come crei le opere?
Ritaglio a mano le tessere di carta. Certi giornali si tagliano in orizzontale, altri in verticale. Un dolce rumore della carta che si striscia con un unico strappo. Le tessere sono irregolari come quelle di pietra che misurano fino a un millimetro, quasi niente. Piccole schegge di colore. La colla gli dà spessore, una certa pietrosità, la grafite passata nei canali che serpeggiano tra le tessere, toglie il bianco della carta, dà armonia, coesione all’insieme, rinforza il bordo, dà rilievo, ricorda il cemento sabbioso dei mosaici. Penso ai film in cui si vedono archeologi che scoprono meraviglie. Ho questa sensazione, come se la mia parte fosse, a questo punto, solo una scoperta. Prendo la tessera con la punta bagnata di colla del pennello, la poso sulla carta già incollata e ne ricopro la superficie. Una alla volta nel tempo che si dilata. Immagino 100 mosaici in tappeto. Un mosaico di mosaici. Privilegio le opere grandi a tappeti. Il tappeto lascia lo spazio svilupparsi in altezza. Non lo invade, lo rivela.
Caroline, perché hai scelto i mosaici?
Ciò che amo nel fare i mosaici è giocare con il caso. Si creano abbinamenti di colori sorprendenti che non avrei osato se avessi avuto davanti a me una tavolozza da comporre. Inoltre, si preserva una certa “maldestrezza” e lavorando su una serie si allenta l’ossessione della perfezione e questo permette di navigare su correnti variegate. Amo il fatto che si lavora a partire da un sapere antico, che lega il semplice al complesso. Si percepiscono cinque mila anni di pratica attraverso luoghi, culture che si “metamorfosano” le une nelle altre.
In un certo senso me ne ispiro e mi libero dall’ossessione del nuovo. Scompongo e ricompongo le forme, giro intorno alla pittura.
Serve molta pazienza, vero?
Certamente, il lavoro richiede pazienza. La concentrazione allenta i pensieri. Essendo per ragione di vita e di indole écartelée / squartata tra vari luoghi e persone, mi ricentro in questo vuoto aperto alla creazione. Un’immagine apparsa su un libro di storia a scuola: il supplizio di un uomo, le cui quattro membra sono legate a quattro cavalli pronti a partire a galoppo. Riporto a me nel lavoro questi cavalli in una quadriglia inventiva.
Come nasce l’amore per i mosaici?
Lavorando mi sono tornati in mente ricordi legati ai mosaici: quando sono arrivata a Roma nel ’83 mi sono informata per un corso di mosaico di cui avevo sentito parlare, al Vaticano. Se non erro, non potei partecipare perché non era aperto alle donne. Invece le mie pillole contracettive francesi le trovavo solo alla farmacia del Vaticano!
Successivamente, quando mi trasferii a Montechiaro, nella Penisola Sorrentina, ho raccolto per anni sulle spiagge pezzi di cocci, di ceramiche levigati dal mare. Li ho divisi per colori come faccio adesso con la carta. Pensavo farne un mosaico sull’alto muro del cortile, opera che poi non riuscii mai a fare.
Può sembrare strano, ma da piccola non amavo tanto i puzzle perché il disegno era già fatto. Oggi quando lavoro, non disegno, tranne rarissimi particolari geometrici complessi, sotto il mosaico. Disegno man mano incollando le tessere, come ricamo man mano coll’ago e il filo. Potrei creare il verbo “mosaicare”.
Simone, da archeologo, che emozioni provi quando vedi i mosaici di Caroline che dialogano con le opere del Museo Archeologico di Napoli?
I fantasmi sedimentati nell’inconscio più profondo si compongono grazie a una delle espressioni dell’arte antica giunte fino a noi nel suo aspetto meno corrotto. A differenza della pittura antica su tela, completamente scomparsa, e degli affreschi, i cui colori appaiano spesso sbiaditi e mutati, o ancora delle statue in marmo, prive della pigmentazione che le completava, i mosaici con tessere di pietra, di terracotta o di paste vitree, bianche, nere,
d’oro o colorate, spesso riappaiono a noi nella loro originaria vivacità, così come li vedeva l’osservatore antico, il padrone di casa che calpestava i pavimenti della sua abitazione o il sacerdote che entrava nel tempio per prendersi cura della divinità.
I mosaicisti greci e romani ci hanno lasciato in ogni parte del mondo antico, dalle abitazioni nel deserto a quelle dei freddi territori del nord, da oriente ad occidente, una innumerevole quantità di decorazioni e scene tratte dal mito, dalla vita reale o dalla natura in tutte le sue forme. Senza soluzione di continuità attraverso i secoli, l’arte musiva, mutati i soggetti rappresentati, è stata impiegata da pazienti artigiani per rendere vivi gli spazi del sacro, per ornare i palazzi dei re, o divenire mezzo di espressione degli artisti contemporanei.
Caroline però si pone in uno spazio differente, a metà strada tra passato e presente.
Nella forma e nel significato i suoi mosaici sembrano rappresentare lo splendore e il disorientamento che produce la riscoperta di ciò che si pensava perso per sempre. Sono reperti archeologici che hanno molti più significati di quanti noi o l’autrice crediamo che ne abbiano.
Ma a dispetto della presunzione dell’archeologo che crede di ricostruire una verità smarrita, Caroline non ci rassicura, ma ci dice che noi non abbiamo il potere di capire fino in fondo ciò che è dentro di noi, ciò che è fuori di noi, ciò che ci attraversa da secoli. Caroline ci insegna che tutto è frammento, tutto è colore, tutto è ambiguo, tutto è mancanza, tutto è immaginazione, tutto è doppio.
Caroline, mi racconti uno dei tanti mosaici a cui ti sei ispirata?
Ho stampato una foto grande dell’Asarotos oïkos di Sosos di Pergamo (II s.ac). Il suolo mal spazzato, sparso di rilievi di pasti che placano l’invidia degli spiriti malvagi. Mi ricollegano con la mia prima mostra, “Les frais de la conversation”, nella quale un’opera rappresentava i rilievi di pasti su tavole bandite. Avanzi di cibo, avanzi di giornali, avanzi di arte, di colori per placare i miei spiriti malvagi.