Abbiamo incontrato uno dei più affermati fumettisti libanesi. Kamal Hakim è l’autore di “Le temps des grenades”, collabora con molte O.n.g e i suoi fumetti raccontano la storia, i costumi e la politica del Libano.
Il Libano è uno dei paesi più complessi e interessanti del Medio Oriente. Per comprendere un po’ la sua storia, abbiamo parlato con uno dei più noti e apprezzati fumettisti libanesi, Kamal Hakim. Kamal è l’autore del fumetto “Le temps des grenades” pubblicato dall’Accademia Libanese delle Belle Arti ed è disegnatore, collabora con molte O.n.g ed è appassionato di storia e politica libanese.
Come hai iniziato a disegnare?
Ho cominciato a disegnare molto presto, era un po’ una tradizione, mia madre, esperta di arte e artigianato arabo e libanese ha sempre disegnato. Anche mio padre amava disegnare, siccome c’era la guerra ed in qualche modo bisognava mantenere la mente impegnata, a modo suo il disegno si imponeva da solo.
Negli anni ho preso una laurea in scienze politiche, perché oltre a essere cresciuto in una famiglia che amava l’arte e il disegno, sono cresciuto con persone che vivevano la politica, durante una guerra civile. Una famiglia che mi ha sempre insegnato a cercare di comprendere e di studiare. Mio padre aveva un muro su cui aveva creato una mappa quotidiana delle alleanze politiche che nascevano e si decomponevano in continuazione durante gli anni della guerra. Un paese diventato un eldorado per la vendita di armi. Sono poi cresciuto all’ombra di mio zio Karim.
Chi era zio Karim?
Mio zio Karim veniva da una famiglia di Beirut, politicamente di sinistra, suo zio aveva fondato, negli anni Quaranta, insieme a un amico, Kamal Jumblatt, il partito socialista, prima che diventasse un partito solamente druso. Si sognava ancora un Libano laico, non in mano alle faide comunitarie. La sua era quindi una famiglia, di sinistra, laica e borghese. Da sempre esiste questa contraddizione che apre molte questioni a cui non ho risposta, essere di sinistra e borghesi.
Questione antica.
Anche io sono cresciuto in un mondo borghese e intellettualmente molto sviluppato, ma con meno soldi, perché gli anni della guerra sono stati molto difficili. Mia madre e mio padre venivano da due mondi economicamente e religiosamente diversi, cosa non scontata in Libano e fecero un matrimonio civile. Mio padre era sunnita, mia madre cristiano ortodossa. Anche se devo dire che la mia famiglia è sempre stata matriarcale.
Che infanzia hai avuto?
Appena usciti dalla guerra avevamo molte speranze, queste purtroppo, negli anni, sono andate un po’ deluse. Quando vivi in un paese distrutto, senza elettricità, senz’acqua, dove te la sbrighi in qualche modo, alla fine ti senti “organico” al funzionamento di quel paese, in qualche modo lo assorbi. Avevo dieci anni quando la guerra è finita. Mia madre è nata nel 43, il giorno dell’indipendenza libanese. Ognuno di noi poi integra queste date e coincidenze, nella propria narrativa personale. Sono cresciuto in una famiglia mista, con contraddizioni e zone grigie, in un paese, in cui si amano le categorie definite e non le zone miste o grigie. Il disegno è quindi diventato una necessità, mi ha permesso di esprimere storie di grande complessità, con semplicità. Ho subito capito che non ero fatto per l’Accademia, ma che per esprimermi mi serviva la semplicità e l’umorismo. Mi sento vicino al linguaggio di Marjan Satrapì che, con ironia e semplicità, ti fa comprendere che la guerra è una tragedia in cui però accadono anche tanti piccoli momenti di normalità, tenerezza, solidarietà e perfino alcuni frammenti di quotidianità. Il trucco è sapere come esprimere questa complessità, che solo chi ha vissuto, può forse capire fino in fondo e trasmetterla a un pubblico di oggi, un pubblico che non può immaginarla. Lavoro sempre su questo e ogni giorno tento di capire come poterlo fare. Amo studiare come il cinema o i grandi autori, spesso italiani, siano stati capaci di raccontare attraverso la storia di una famiglia, la storia di un paese o di un conflitto.
È per questo che hai deciso di raccontare la storia di tuo zio?
La storia di mio zio è la storia di un borghese di sinistra che si batte per la Palestina, non solo con le armi, ma anche in altri modi, durante l’occupazione israeliana nel 1982. Non c’era acqua, perché r le condutture erano state tagliate, ma lui era direttore di una fabbrica e aveva fatto di tutto per portare dell’acqua. E probabilmente fu questa una delle motivazioni per cui lo hanno ucciso.
Il mio primo fumetto, è stato pubblicato dall’Alba-Università di Balamand e si intitola “The Time of the Pomegranates”. La storia si svolge durante un weekend in montagna tra una nonna e suo nipote, che sarei io. Durante la storia mi immergo in tre casse che contengono gran parte della vita dello zio Karim, che fu assassinato il 2 agosto 1982, durante l’assedio israeliano, senza che nessuno abbia mai saputo da chi o perché. La storia racconta di una ricerca che intraprendo per cercare di dipingere il ritratto di mio zio attraverso una serie di interviste con testimoni del crimine, nel tentativo di capire chi lo abbia commesso, visto che non lo abbiamo mai saputo.
Anche il secondo fumento che stai scrivendo parla di tuo zio Karim?
Tento in entrambi i fumetti di trovare una risposta che non ho, mettendo insieme due generazioni, quelle dei miei genitori e la mia. Due generazioni che faccio parlare, nel tentativo di dare una risposta alle domande della mia inchiesta sulla morte dello zio.
Nella storia vi sono aspetti ciclici, duali, l’ottimismo della nostra generazione, prima l’ottimismo e poi il crollo delle aspettative della generazione dei miei genitori. Mia nonna era una levantina che viveva in Egitto e quando Nasser ha nazionalizzato le proprietà degli stranieri, ha perso tutto. Suo padre era un libanese protestante, originariamente era ortodosso, ma si convertì al protestantesimo per beneficiare di un’istruzione migliore, in quella che poi sarebbe diventata l’Università Americana di Beirut. Successivamente si trasferì in Egitto dove fece fortuna. Era socialista ed educò i propri figli con quell’educazione, ridistribuiva parte dei profitti con le persone con cui lavorava. Mio bisnonno rimase in Egitto anche quando gli fu nazionalizzato tutto, era solito dire: “devo tutto all’Egitto e se l’Egitto ora ha bisogno di me, non mi tiro indietro”.
Mi parli di tua nonna?
Anche mia nonna ha assorbito questi valori e ce li ha trasmessi durante la guerra. Nonostante fosse sposata con un banchiere, quando persero tutto negli anni del conflitto, riusciva comunque sempre a sbrogliarsela. Dopo la guerra vendemmo un terreno e mia madre ha potuto costruire una bella casa a Deir el Kemmar, dove viviamo parte dell’anno oggi. Io e mio fratello Karim siamo cresciuti sapendo che i soldi in alcuni momenti arrivano, in altri spariscono. Ecco, i miei eroi sono il mio bisnonno, mia nonna e mia zio, persone che avevano una nobiltà di spirito e che ci hanno trasmesso la loro forza di vivere e i lori ideali. Persone che hanno vissuto traumi molto forti ed è lì che vedi nelle storie delle persone delle evoluzioni. Se non c’è un’evoluzione nei caratteri delle storie, non ci sono storie.
Hai lavorato molto anche per delle Ong, come Solidarieté International e Medair.
Con Solidarietè International ho fatto un lavoro sui rifugiati siriani nel Nord. Mi hanno fatto scegliere se raccontare i campi formali o quelli informali. Io ho scelto un campo informale. Ho optato per un campo che era nato in una torre, mi sembrava una storia davvero interessante da far conoscere. Mi hanno portato nel Akkar, la regione più povera del Libano, dove un folle con le manie di grandezza, aveva costruito in una regione povera, una torre con all’ultimo piano un salone dal pavimento rotante per farne un ristorante. Arrivo e trovo un villaggio che vive nella torre, con i panni stesi e tutto quel che necessità in una cittadina. C’erano le signore che comunicavano da un balcone all’altro. Ho tentato di raccontare le loro vite, cercando di fare un lavoro sia da giornalista, che da illustratore. Mi sono guadagnato la loro fiducia, in parte perché lavoravo per l’Ong ed in parte sedendomi con le signore, mentre parlavamo di ricette di cucina. Piano piano, hanno iniziato a raccontarmi storie incredibili che escono dai cliché che di solito senti sulla rivoluzione siriana.
Cosa ti hanno raccontato?
Molto lontane dalle storie di gente che voleva un califfato, le persone hanno storie molto più grigie o complesse. Inizialmente, quando incominciavo a intervistarli molti mi dicevano che appartenevano alla maggioranza sunnita che viveva nelle campagne della Siria e che non volevano più essere comandati dagli Alawiti. Ma poi piano piano, quando avevano più fiducia, emergeva che erano i sunniti della media borghesia a essere razzisti con loro, mentre gli alawiti li trattavano bene. Anche Assad, da una parte l’odiano e dall’altra lo amano. Raccontare questi sentimenti misti e non affatto chiari, è stata la parte più interessante. È il grigio la parte interessante. La prima volta ti raccontano sempre la versione ufficiale, ma se torni e ritorni, quando guadagni la loro fiducia, la storia cambia. Per esempio sulle manifestazioni e le violenze dell’esercito, poco a poco, le persone ti raccontano che l’esercito e i manifestanti, provenivano entrambi, quasi sempre, dal medesimo villaggio e quasi sempre erano entrambi sunniti. Di solito la violenza scoppiava quando qualche elemento perturbatore, non proveniente dal villaggio, attraversava la folla in moto e sparava sull’esercito, facendo in modo che questo rispondesse. I rifugiati che ti raccontavano queste storie, non avevano chiaro chi fosse. La zona grigia è una terra di confine difficile da raccontare, che loro stessi hanno difficoltà a raccontarsi.
È difficile farsi un’idea?
Non hanno avuto il tempo per digerire e capire cosa sia capitato, è una cosa tipica del Medio Oriente, tutto avviene così velocemente che non si ha mai il tempo di digerire e comprendere davvero in profondità quello che accade. Le élite stanno sparendo, la classe media sta scomparendo e siamo sempre più in mano a gruppi identitari di tipo religioso, se non tribale. Quella che crea una società sana è la classe media, se salta, si torna indietro. A volte mi chiedo se io stesso non diventerò un rifugiato, vista l’evoluzione della regione.
La questione identitaria sta diventando un problema?
La questione identitaria sta diventando purtroppo molto prevalente in tutto il mondo. La questione identitaria sta frammentando le battaglie universali, come per esempio la lotta di classe. La cultura politica nel mondo arabo, nel XX e nel XXI secolo, è stata indebolita, se non distrutta, da mille conflitti, colonialismi, dalla guerra fredda e dall’implodere di molti stati. Si sta perdendo il tradizionale multiculturalismo che per millenni ha caratterizzato il mondo islamico. La nascita di un nuovo pensiero politico multiculturale è stato uccisa sul nascere da tutti questi continui conflitti e nuove forme di colonizzazione. A modo suo, il nazionalismo, le situazioni identitarie e il neo-colonialismo, non solo occidentale, ma anche saudita e iraniano, la mai risolta questione palestinese, fanno comodo a tutti. Però allo stesso tempo, per i Libanesi, è importante non dare sempre la colpa agli altri, a potenze straniere, perché questo diventa una scusa per non combattere il fallimento della classe politica libanese. Non vuol dire che non vi siano le cattive influenze di paesi terzi, ma questo avviene grazie alla debolezza e corruzione della nostra classe politica, che non riesce a sottrarsi a tutto questo.
Che altri progetti state portando avanti?
Amo disegnare nudi perché ti permette con pochi tratti e utilizzando anche la luce di raccontare molto. Lavoro anche sull’iconografia, perché in fondo ha molte somiglianze con il fumetto. Per secoli è stata utilizzata per raccontare in modo semplice la religione cristiana a chi non sapeva leggere. Però dietro a questo lato accessibile, si nasconde il lato mistico, meno accessibile. Ho creato delle finte iconografie religiose con personaggi politici come Salvador Allende, Karl Marx, Antonio Gramsci. La mia riflessione nasce dal fatto che il cristianesimo è una religione orientale, Cristo era un palestinese, quindi anche qui vi è un lato politico. Cristo non è quello reclamizzato sotto Natale o Pasqua, ha un lato rivoluzionario e mediorientale. Cristo rappresenta anche le donne che lo attorniavano. Questo per dire che il cristianesimo nasce in Medio Oriente e non è affatto un qualcosa di esclusivamente europeo. Amo le identità fluide e quando si parla di identità, la regione è molto simile a una Matrioska. Si tratta di una zona talmente fluida che ti permette di essere musulmano al livello culturale, bizantino al livello storico, druso al livello mistico, ebraico al livello della tradizione, marxista al livello del sogno. Bisogna combattere il concetto della purezza che arriva dall’Occidente.
Hai anche fatto opere ispirate alle miniature?
Sì, le miniature sono molto interessanti e ti raccontano come non sia affatto vero che non si possa rappresentare il figurativo nel mondo islamico, lo si fa da secoli, in Siria vi erano anche nei primi secoli dell’Islam miniature erotiche. Io amo disegnarle perché permette di sviluppare sempre di più il disegno ed il proprio stile.
La tua arte è ispirata al Medio Oriente e la sua storia?
In parte sì, allo stesso tempo bisogna stare attenti a non cadere nelle proprie stesse trappole, per esempio non sono poi così sicuro che esista davvero un mondo orientale diverso da uno occidentale. Spesso è tutto più confuso, mischiato, sovrapposto. In Libano questo è evidente, ma lo è anche quando si visitano i siti archeologici ellenistici ad Alessandria d’Egitto, dove il mondo greco si fonde con quello egiziano. Anche l’iconografia crea immagini simili, basta vedere un’icona bizantina che rappresenta Gesù Cristo e un’immagine dell’Imam Ali per rendersi conto della somiglianza. Sono tantissime le immagini religiose o tradizioni che dall’India, fino all’Egitto e l’Europa si sovrappongono e si fondono nei secoli.
Hai creato anche un personaggio ispirato a te stesso, un anti-eroe, me ne parli?
Ho creato il personaggio di Kamal che è un anti-eroe per eccellenza che di notte riceve in sogno delle visite, per esempio da Luke Skywalker, che gli dice di partecipare al cambiamento, alla rivoluzione. Ma Kamal è nudo e lui gli dice: “ non ti preoccupare ti vestiremo”. Kamal, in fondo, è un attendista, aspetta di vedere cosa accadrà, una situazione tipica libanese.
Nella realtà sei un attivista politico?
Sono impegnato in un partito laico di sinistra e in attesa delle elezioni parlamentari, stiamo partecipando con ottimi risultati alle elezioni degli ordini professionali e dei sindacati, perché in questo modo facciamo politica tra la gente, dal basso. Il leader del partito, Charbel Nahhas, è un ex ministro di sinistra, che lavorava alla banca mondiale e che molto prima che il paese andasse in bancarotta, non ascoltato da nessuno, aveva previsto e detto pubblicamente che il debito era insostenibile e che il paese avrebbe fatto crack.
Collabori anche con il collettivo Samandal, me ne parli?
Collaboro con Samandal il collettivo dei disegnatori libanesi. Con loro ho creato La storia di un’Isola, in cui un giovane intellettuale, Kamal, porta una turista straniera su un’isola. Kamal non fa altro che vedere la bellezza della natura e delle persone locali. Ma non si accorge che la natura è ostile e che gli uomini tentano di aggredire la sua amica straniera. Mentre la donna alla fine si difende e finisce per gestire tutto, Kamal continua a filosofare senza accorgersi di nulla. Ho anche disegnato la storia della Palestina dal conflitto di Balfour in poi. Una storia, quella palestinese, che mi è molta cara e che mi è stata tramandata dalla passione politica della mia famiglia.