L’artista e fotografo Maurizio Esposito racconta uno dei simboli di Napoli, un Vesuvio intimo e spirituale, partendo dal drammatico incendio che nel 2017 ha distrutto il Parco Nazionale alle pendici del vulcano.
Il Vesuvio è uno dei simboli più iconici di Napoli e raccontarlo è davvero molto complesso, proprio perché iconico. L’artista e fotografo, Maurizio Esposito, sicuramente c’è riuscito molto bene. Partendo dal drammatico incendio che nel 2017 ha distrutto il Parco Nazionale alle pendici del vulcano, le sue foto raccontano, non solamente la catastrofe ecologica, ma un Vesuvio intimo, spirituale, a tratti magico. Un Vesuvio che solamente chi lo conosce fin dall’infanzia poteva cogliere. Un racconto molto lontano dall’iconografia quasi pop che tutti noi conosciamo del grande vulcano. Maurizio Esposito nasce a Napoli nel 1982 dove vive e lavora tuttora. Nel 2014 consegue un dottorato in Gender studies. Negli ultimi anni ha esposto i suoi lavori in diverse mostre e musei, tra cui: il museo d’arte contemporanea di Napoli MADRE (2011), la Fondazione Forma per la fotografia di Milano (2011), al Centro di fotografia d’Autore di Bibbiena (2012), risultando tra i vincitori della terza biennale dei giovani fotografi italiani, alla triennale d’architettura di Milano (2012). Nel 2015 viene selezionato per partecipare alla seconda edizione del Laboratorio Irregolare tenuto da Antonio Biasiucci, con il quale espone presso lo SMMAVE di Napoli (2017), la Galleria del Cembalo di Roma (2017), ARCOS il Museo d’arte contemporanea di Benevento, La bottega di Cecè Casile di Milano (2018). Successivamente il progetto “Vesuvio, 11 luglio 2017” viene esposto a Bolzano per il festival Tiefkollektiv/profondo collettivo 2 (2019), al Museo e Certosa di San Martino (2019), alla Galleria Fonti di Napoli (2019), al Roonee 247 fine Arts di Tokyo (2020), a Villa Pignatelli – Casa della fotografia di Napoli (2020). Le sue opere sono presenti in diverse collezioni tra cui “Imago Mundi” di Luciano Benetton e la Collezione Cotroneo (2017).
Come nasce il progetto fotografico sul Vesuvio?
Il progetto è nato nel luglio del 2017, dopo che numerosi incendi sul Vesuvio e sul monte Somma erano stati appiccati. Quel giorno ero sul terrazzo di casa mia, nel centro storico di Napoli, quando mi sono accorto che il Vesuvio stava bruciando come non l’avevo mai visto bruciare fino ad allora. Ho vissuto 25 anni tra quelle pinete, nella casa dei miei genitori nelle campagne alle pendici del Vesuvio, nel Comune di Torre del Greco e qualche incendio c’è sempre stato durante la stagione estiva. Ma quel giorno sul terrazzo, stavo assistendo a una vera tragedia, gli incendi erano numerosi e in diversi punti. Solo quando sono stati spenti, quando si è capita la reale portata della tragedia, ho saputo che 2000 ettari del Parco Nazionale del Vesuvio erano bruciati e che si stimava che 50 milioni di api erano morte. Per me quello non era solo un disastro ambientale, guardare quegli incendi aveva un altro valore, stavano andando a fuoco gli anni trascorsi tra quelle pinete, la mia adolescenza, la mia infanzia. Era un disastro interiore.
Cosa ti ha spinto ad andare ad aiutare i vigili del fuoco?
Sono stato mosso dal rapporto che ho con il vulcano, in quella circostanza non potevo restare a guardare, per me è stata una necessità. Quando vivevo nella casa della mia famiglia, il Vesuvio era lì, davanti ai miei occhi tutto il tempo, più che un paesaggio era una presenza. Dopo il trasferimento a Napoli, la distanza aveva apparentemente cambiato quel rapporto. Il terrazzo di casa mi mostrava la veduta che aveva fatto innamorare Giacinto Gigante e la scuola di Posillipo. Era un incanto, ma era troppo lontano per essere ancora una presenza nella mia vita, la distanza sembrava aver indebolito il nostro legame. Le cose sono cambiate nel momento in cui l’ho visto bruciare, il Vesuvio si stava risvegliando dentro di me, come presenza interiore. Quella notte non chiusi occhio, sentivo il bisogno di fare qualcosa, fu così che decisi di comprare un badile, lasciare temporaneamente la macchina fotografica a casa e andare ad aiutare i vigili del fuoco. In quel momento la mia terra aveva bisogno di aiuto, non di un fotografo, e a me sembrava un atto di sciacallaggio stare lì a fotografare mentre piante e animali morivano. Non dico che non si possa fare, anzi, molta fotografia lo fa, ma non è sicuramente il mio approccio, sia per una questione affettiva, che per una questione di tempi. Ho bisogno di anni per realizzare un progetto, le fotografie non sono fatte di istanti, ma di durate. Per me non era tempo di scattare, ma di spalare il fuoco, per separarlo da ciò che non era ancora arso.
Il Vesuvio è forse la figura più iconica di Napoli, da artista come ti sei approcciato a un simbolo così profondo?
Il Vesuvio per me è la montagna sacra e le sue pinete, le foreste di betulle, di lecci, gli alberi di sughero, sono i suoi santuari. Da tre anni e mezzo mi reco lì quasi tutte le settimane. In questo tempo non ho mai incontrato il Vesuvio come simbolo, come icona, non ho mai fotografato il cratere e il monte Somma con la loro forma classica che siamo abituati a vedere da Napoli, le cartoline non mi sono mai interessate, sono immagini stereotipiche molto riduttive di realtà molto complesse. Il mio rapporto col Vesuvio è tra le pinete, così come facevo quando andavo a giocarci a dodici anni con i miei amici, quindi m’interessava piuttosto entrare nelle viscere del simbolo, dentro all’icona. Quando gli incendi sono finiti, sono tornato con la macchina fotografica nei luoghi dell’infanzia. Sembrava “Germania anno zero” di Rossellini. Camminavo tra macerie di alberi, cenere, non c’era nient’altro. Per un attimo sono tornato bambino, ho rivissuto quei momenti, il disastro mi faceva stare male. Quelle che un tempo erano floride pinete, mi apparivano come enormi foreste di fiammiferi bruciati, che aspettavano solo il vento per cadere. C’erano poi dei misteriosi buchi nel terreno, ho impiegato almeno quindici giorni per capire che erano alberi arsi fino alle radici. Non c’era nessuno oltre me. Ricordo solo le api, il primo e unico incontro per mesi. Mi stavano addosso, non si staccavano mai, il mio sudore era l’unica fonte idrica nel raggio di chilometri. Avevo la tragedia davanti, ma avevo anche una macchina fotografica.
Fotografare la natura ferita cosa ti ha lasciato?
Come avrai intuito sono state diverse cose ad agitarsi dentro e a spingermi a portare avanti questo progetto per anni. La fotografia mi ha permesso di cambiare la realtà, le scene di morte sono diventate altro. Sono andato alla ricerca di quell’energia vitale che era nascosta nel Vesuvio distrutto, nei suoi colori, nelle sue forme e nella luce del sole. In quei luoghi di morte ho cercato quello che era rimasto della vita. Nelle mie foto non c’è più distruzione e questa trasfigurazione mi ha aiutato a stare meglio, è stato terapeutico. Questa pratica fotografica mi appartiene sin dai tempi di “Napoli Est” e “My secret garden”, i miei primi progetti. Nella Fattoria degli Animali di George Orwell vi è la famosa frase “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, frase che lasciava intendere che in realtà esisteva una differenza di classe dietro l’apparente uguaglianza. La frase una volta fu ripresa da Sarri quando era l’allenatore del Napoli. In un momento in cui Higuain non stava molto bene, disse: “Per me tutti i giocatori sono uguali, ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”, intendendo dire che gli stavano più a cuore. Mi verrebbe quindi da dire che “tutti i luoghi sono uguali, ma ce ne sono alcuni più uguali di altri”, nel senso che mi sono più vicini. Il Vesuvio è uno di questi luoghi. Quando Werner Herzog parla del suo cinema come di una ricerca di immagini pure, ho pensato che le pinete bruciate del Vesuvio, le lave a corda, erano immagini pure. La mia pratica fotografica ha sempre la stessa intensità, ma varia da progetto a progetto. Gli strumenti che uso e i risultati che ottengo sono sempre diversi, non ho una ricetta, un canovaccio da applicare. Sul Vesuvio devastato ho cercato la luce, perché era l’unico segno di vita, ciò da cui un giorno le piante e gli alberi sarebbero rinati e l’ho utilizzata per trasformare quei luoghi di morte in pittura, magia, sogno. E in questo vorrei che la politica prendesse spunto dall’arte. Al Vesuvio occorre un rimboschimento importante e solo forse tra decenni potremo rivedere ciò che abbiamo distrutto.
Quale messaggio vorresti trasmettere a un ragazzo che guarda le tue fotografie?
Sicuramente ci sono diversi plateaux, diversi piani, per dirla con Deleuze: c’è la mia storia personale, la mia infanzia, c’è il piano ecologico del disastro ambientale, il piano politico di un atto compiuto volontariamente da persone mai identificate. C’è anche il piano sociale, grazie a tutti i cittadini che dopo gli incendi si sono mossi per prestare soccorso agli animali. Il fatto è che quando crei qualcosa, ci sono simboli e segni che non puoi più controllare, l’opera si stacca da te e comincia ad avere una vita propria. Chi guarda le mie fotografie sicuramente ha un background diverso dal mio e da qualsiasi altro individuo, è questo il motivo per cui ognuno di noi trova nella stessa opera cose diverse. Non ho pretese verso chi guarda le mie foto, mi piace pensare che siano il contenitore di tutto quello che chi le guarda riesce a vederci.
Napoli è uno dei centri dell’arte contemporanea europei, come ti trovi a lavorare in città?
Non ho dubbi nel risponderti che mi trovo benissimo. Mi è capitato di vivere per un po’ a Parigi e a New York, ho viaggiato e ho apprezzato tante parti del mondo, dal Marocco, al Giappone, alla Mongolia, non c’è nulla che non abbia amato. Ma so che vivrò a Napoli, è questa la mia città, qui ci sono i miei legami affettivi con persone e luoghi. È stato bello anche quando sono tornato a New York dopo anni, ho sentito un senso di familiarità, come se fosse la mia seconda casa, con luoghi e persone che aspettavano un mio ritorno, ma Napoli resta casa. Inoltre la mia produzione artistica si basa molto sull’elaborazione del mio vissuto, credo di poter lavorare solo su persone e luoghi che conosco da molto tempo. Per questo durante i viaggi spesso non porto la macchina fotografica, so che il mio sguardo sarebbe soggetto alle contingenze, privo di relazioni durevoli con luoghi e persone. Se non hai legami profondi con qualcosa, sia esso un luogo o una persona, hai anche poco da rielaborare e allora diventa impossibile che si formi un’immagine di quella cosa dentro di te, tale da poter essere tirata fuori. Napoli mi assicura rapporti duraturi con l’acqua, la terra, il fuoco, i miei affetti, le strade e i palazzi che attraverso tutti i giorni. Non credo di poter lavorare lontano dalla mia terra.
Che progetti hai per il futuro?
Nel mio futuro prossimo devo concludere “Vesuvio, 11 luglio 2017”, al momento mi preme questo. Vorrei diventasse un libro, ma ho ancora del lavoro da fare. Se penso a cosa verrà dopo, non ti nascondo che ho delle cose in mente, cose su cui sto lavorando e raccogliendo materiale da diverso tempo e anche idee che vorrei provare a sviluppare. Però in questo momento non sono sicuro di nulla, meglio attendere e concentrarsi sulla fine di questo progetto e sul dare vita al libro su di esso.
Dove hai esposto le fotografie?
Vesuvio, 11 luglio 2017 ha avuto un riscontro abbastanza immediato. Il progetto non è ancora terminato ed è stato già in mostra a Napoli tre volte: presso la galleria Fonti in “Vendi Napoli e poi muori”, curata da Lorenzo Xiques, al Museo Certosa di san Martino, per la mostra “Vesuvio quotidiano_Vesuvio universale”, che raccoglie tutte le opere d’arte sul Vesuvio dal 1600 a oggi, e al museo Casa della fotografia – Villa Pignatelli di Napoli, per “OpenHeart” curata da Antonio Biasiucci. Il progetto è stato esposto anche a Bolzano per il festival “Tiefkollektiv/profondo collettivo 2” e presso la Roonee 247 fine Arts di Tokyo, in Giappone, nel febbraio 2020. In aprile dovevo inaugurare una mostra al Bethel Center of art di New York ma la situazione del Covid ha bloccato tutto e pare la cosa sia rimandata.
Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.