Fernweh è una parola tedesca che significa “nostalgia per un posto in cui non si è mai stati”. È un po’ quello che succede con New York: ci si chiede come sarà arrivare per la prima volta in un luogo mille volte percorso, svelato dai film in ogni angolazione. Le stesse domande accompagnano anche me, durante le dieci ore di volo che mi separano dalla capitale dell’impero, emblema del mosaico cosmopolita.
Appena uscita dall’aeroporto JFK resto un po’ delusa: mi aspettavo che tutto fosse enorme. Nella mia testa c’erano strade a 10 corsie, bottiglie da 6 litri e King Kong aggrappato ai palazzi. Ma quando il taxi supera il Queens, si spalanca il profilo di Manhattan, e accarezzo finalmente l’approdo in un luogo dell’immaginario, rendendomi conto che stavo cercando la grandezza nella dimensione sbagliata. Bastava alzare lo sguardo, per riuscire a perderlo oltre una verticale di 60 piani di finestre lucide. Ma questa non è l’unica prospettiva per affacciarsi sulla città: se i grattacieli la guardano dall’alto, riflettendo le nuvole e sventolando le onnipresenti bandiere a stelle e strisce, le brownstones offrono una piccola rampa esterna dalla quale assistere allo spettacolo dell’umanità.
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Non vedevo l’ora di sedermi ai piedi di queste case a schiera che imitano il colore delle foglie autunnali. Come scriveva Eisner, il padre della graphic novel: “le scalinate dei caseggiati sono spalti di uno stadio, un ponte levatoio, un piccolo palco, posti a sedere sicuri nell’arena della città, da cui assistere alla parata della vita”.
Se si preferisce una veduta panoramica ci sono valide alternative all’Empire State Building e al Top of the Rock del Rockefeller Center, che ho allegramente dribblato lanciandomi nel negozio Lego antistante.
Si può scegliere l’adrenalina di un (costoso) giro in elicottero oppure il comfort di Le Bain, locale all’ultimo piano dello Standard Hotel. La vista vertiginosa e il grado alcolico dei cocktail confondono il profilo delle bottiglie illuminate con quello del New Jersey che si riflette sull’Hudson River.
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L’albergo in questione si trova a cavallo di una delle aree verdi non convenzionali che si affiancano a quelle storiche, come Central Park. La High Line è un parco sopraelevato, che si estende dal Meat Packing District a Chelsea. Costruito lungo una linea ferroviaria dismessa, dai suoi 9 metri d’altezza si può osservare la giungla urbana come fosse un’opera d’arte dinamica.
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Tra gli altri spazi green non ordinari è doveroso citare i community garden: oasi verdi ribelli gestite dal basso, soprattutto da volontari e abitanti del quartiere.Strappati al degrado e alla criminalità, questi giardini bonificati sono diventati salotti della vita comunitaria, nei quali s’improvvisano barbeque o si decide cosa piantare, in un caos di fiori, orti, murales, giochi, sedie e tavoli di recupero.
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Sono nati nell’East Village, per poi diffondersi anche a Brooklyn, ma io ho preferito quelli di Harlem, che condividono col quartiere la sua autenticità.
Il neighborhood afroamericano, che oggi ospita anche ispanici di varia provenienza, è un concentrato di stupore e déjà vu. I ragazzi con le cuffione e le nere corpulente in felpa rosa sembrano ricordare che i vestiti larghi non sono una moda, ma il retaggio di famiglie povere nelle quali si cresceva dentro gli abiti dei fratelli maggiori.
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Cammino immaginando il quartiere tra i fumi del proibizionismo e le blue note dell’età del jazz, e finisco per perdermi nelle strade secondarie. Incontro adolescenti che giocano a basket, l’ora di educazione fisica di alcuni istituti e la Graffiti Hall of Fame, una galleria mondiale di street art fondata nel cortile di una scuola.
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Per completare il folklore non è mancata neanche la scena del crimine con tanto di nastri gialli e neri e una gentile signorina sdentata che mi ha offerto un tiro di crack in cambio di una sigaretta, il tutto mentre parlavo al telefono con mia madre.
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Ogni tanto viene da chiederselo, qui, se è il cinema che imita la realtà o viceversa. Se tutta la città va dallo stesso analista di Woody Allen. Se ad ogni angolo corrisponde un ricordo del grande schermo. La lista sarebbe lunga. A TriBeCa, “triangolo sotto Canal Street”, il residente Robert De Niro ha fondato uno dei film festival più seguiti del mondo, e nello stesso quartiere troviamo la caserma di Ghostbusters. Nel Greenwich Village ci sono la casa di Carrie Bradshaw e l’edificio di Friends, a pochi passi da Christopher St, che oggi è il salotto dell’alta società gay, ma un tempo è stata l’epicentro dei moti di Stonewall. Spike Lee è solo uno dei registi che si è ispirato a Coney Island, nastro di sabbia del sud di Brooklyn che deve il suo fascino romantico allo splendore sfiorito e al luna park decadente (oltre che all’invenzione dell’hot dog). Nel Lower East Side la tappa obbligatoria è Katz’s Delicatessen, tempio del pastrami e scenario del più celebre orgasmo simulato della storia del cinema: quello di una Sally fragorosa davanti un Harry allibito.
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Risalendo oltre Houston St approdo all’East Village, culla della controcultura e del punk rock. Abbassati i pugni della rivoluzione, oggi il quartiere pullula di studi di tatuatori, botteghe artigiane e bizzarri negozi dell’usato.
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Anche a Williamsburg respiro un’atmosfera simile. Tra una batmobile, una salagiochi di videogame anni 80 e i più importanti concerti indie, ricordo le parole del blogger Bike Snob NYC: “Nella Williamsburg di oggi, a Brooklyn, ci sono due comunità di spicco: gli ebrei ortodossi Hasidim, che vestono di nero e hanno la barba; e i cosiddetti Hipster, che vestono di nero e hanno la barba”.
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Da quando la “città che non dorme mai” ha cominciato a riposarsi, la riqualificazione di Brooklyn ha reso il distretto sempre più ambito per chi cerca prezzi più accessibili e un’atmosfera rilassata e attenta alle nuove tendenze. È in questo spirito che nel borough si alternano con frequenza i flea market, nei quali curiosare tra mappamondi, ciclofficine, teste di cervo, giacche logore ed elefanti rosa.
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Accanto all’arte più istituzionale, dei numerosi musei, delle gallerie di Chelsea e SoHo, del patrimonio di Greenwich che ha ospitato Pollock quanto la Beat Generation, ho scoperto un’arte differente. È il caso del PS1, una costola del MoMA nata dalla riconversione di una scuola ottocentesca del Queens. O del Dumbo Arts Festival, che anima uno splendido quartiere panoramico affacciato sul fiume, nel quale ho passeggiato tra case di vetri colorati, matite alte 2 metri e tubi al neon che illuminavano la nostra voce.
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Gli spettacoli non sono stati da meno: Fuerza Bruta fa vacillare le leggi del plausibile, con performer che nuotano a qualche metro da terra in un telo trasparente colmo d’acqua.
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Sleep no more rinuncia del tutto alla realtà creando un non-luogo immaginario, dove maschere bianche mi hanno condotto in silenzio verso cento camere di un albergo, per poi abbandonarmi alla più noir delle esperienze possibili.
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Nel Financial District, solcato da Wall Street, il cuore del capitalismo americano prende le sembianze di Gotham City. Sorrido leggendo che proprio qui i coloni olandesi comprarono Manhattan per 60 fiorini (24 dollari), perdendola poi contro la Corona Inglese. Mi lascio alle spalle la Borsa e qualche isolato più avanti nell’aria sembra aleggiare il silenzio, come fosse un residuo fossile dell’esplosione. Ho davanti Ground Zero, il luogo dove sorgevano le torri gemelle prima dell’attentato dell’11 settembre 2001. Al loro posto, oggi c’è “Reflecting Absence”: delle fontane scure, composte da quadrati concentrici, nelle quali l’acqua viene risucchiata per poi sparire in un vortice. Sul perimetro sono incisi i nomi delle vittime.
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Come un paradosso l’acqua rievoca il fuoco, elemento dal quale la città tenta da sempre di proteggersi zebrando gli edifici con le note scale antincendio.
La più grande icona americana è invece nella vicina Liberty Island, che ho raggiunto in traghetto per far visita alla famosissima lady di 93 metri che brandisce una fiaccola alta nel cielo.
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Cosa ho imparato dopo il primo morso alla grande mela?
1-Non stupirsi per il 15-20% di mancia obbligatoria :quello è il vero stipendio dei camerieri.
2-Gli americani tengono l’aria condizionata ad una temperatura in grado di estinguere qualunque altra popolazione.
3-Piano con quel braccetto teso, i taxi liberi sono solo quelli con la lucina centrale accesa (sembra una, ma ne sono tre).
4-Non fate i compagnoni con gli estranei, vi prenderanno per pazzi.
Ma soprattutto: lasciate a casa la guida e lanciatevi per strada, perché succede sempre qualcosa in questa ipercinetica metropoli dell’evento.
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Camminando col naso all’insù, in una settimana mi sono imbattuta nella parata dell’orgoglio afroamericano, in una performance con ballerini, nella crisi mistica (e di identità) di una donna davanti un coro gospel, nel raduno delle Harley-Davidson con concerto rock annesso e in una manifestazione di ciclisti acrobatici.
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Non è poco, se rapportato al nostro senso del pudore. Come se la volontà di esprimersi, qui, diventasse uno spettacolo, un bisogno impellente e pubblico. Noi ci riveliamo davvero tra le quattro mura mentre loro esplodono, riversandosi al di fuori delle case e di se stessi.
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Photocredits:
www.dezeen.com/ www.nuok.it / it.forwallpaper.com / sleepnomorenyc.com / Anna Buda / Valentina De Matteis
Citazioni:
Will Eisner, “New York”, Einaudi-Stile Libero, Torino, 2008
Bike Snob NYC, “Il ciclista illuminato”, Ultra, Roma, 2013