A Milano si è aperta la mostra “Once Upon a Time in 2020”. Nei nuovi spazi espositivi dello Scalo Lambrate, fino al 16 maggio oltre 100 fotografie affrontano il Covid, con punti di vista nuovi e sorprendenti. La nostra intervista all’autore Fabrizio Spucches.
Si è aperta mercoledì 28 aprile a Milano la mostra “Once Upon a Time in 2020”. Sono esposte le foto dell’artista e fotografo Fabrizio Spucches. La mostra è organizzata dall’Associazione Formidabile Lambrate, è promossa dal Comune di Milano e dal Municipio 3 di Milano, è curata da Nicolas Ballario e vede la direzione artistica di Umberto Cofini. I testi sono di Oliviero Toscani e Denis Curti. L’esposizione, visitabile fino al 16 maggio ogni giorno dalle 10 alle 18 nei nuovissimi spazi espositivi dello Scalo Lambrate di via Saccardo, cerca di comprendere “se l’arte possa essere uno strumento di rappresentazione della realtà, sottraendo questo primato alla banalità della comunicazione di massa”.
Oltre 100 fotografie per una mostra divisa in quattro diverse sezioni, che affrontano il Covid offrendo vari punti di vista, nuovi e sorprendenti, sulla condizione umana in questo periodo. Scorci della storia contemporanea sotto gli occhi di tutti, sottolinea il curatore Nicolas Ballario, “ma che spesso non vogliamo vedere, dagli aspetti più nascosti della classe lavoratrice fino al divario, cresciuto a dismisura, tra ricchi e poveri”. Vi sono poi due sezioni iconiche, che strizzano l’occhio alla storia dell’arte, la prima traccia una serie di ritratti surreali, dal sapore rinascimentale, che nei confronti del virus hanno un atteggiamento sacro e profano allo stesso tempo. La seconda è invece una sequenza dedicata al nudo, al tabù che resiste nonostante stia cambiando ogni paradigma. Tutte le foto d’arte esposte sono in vendita presso la Galleria Still Fotografia.
Per conoscere meglio il progetto protagonista della mostra, Face Magazine.it ha intervistato l’artista e fotografo Fabrizio Spucches.
Com’è nata l’idea di questo progetto fotografico?
Tutto è nato in modo molto casuale. Stavo facendo un progetto sulla linea di autobus 90, nel febbraio 2020. Un lavoro ora sospeso che si chiama “90 All you can eat”. Mentre lo stavo portando avanti è arrivato il primo lockdown. All’inizio non si capiva cosa stesse succedendo davvero. Un po’ per passare il tempo iniziai a farmi degli autoritratti. Ho poi iniziato a fare dei ritratti ad Andreea Apavaloaei, la mia compagna, e ho proseguito con i vicini di casa. Lì mi si è aperto un mondo, all’inizio avevo un po’ di timore perché eravamo nelle prime fasi del Covid, in cui ancora non era chiaro come lavorare in sicurezza. C’era molta attenzione anche nei riguardi dei fotografi. Poi mi sono reso conto che i miei vicini erano molto disponibili. Mi hanno fatto capire che, con le dovute precauzioni, era possibile portare avanti questo progetto. A questo punto ho cominciato a chiedermi quali fossero le categorie che stessero soffrendo maggiormente con la pandemia. Ho subito scartato gli ospedali, da una parte perché erano già troppo gettonati e dall’altra perché comunque non mi avrebbero fatto entrare. Ho quindi pensato agli operatori delle agenzie funebri, ai necrofori. Sono stato abbastanza fortunato perché dopo averne contattati moltissimi, ne ho trovato uno che aveva aperto da pochissimo e che mi ha dato fiducia ed è diventato un po’ il mio Virgilio. Poi ho fotografato i lavoratori dei supermercati e i food raiser, la comunità dei sinti, escort, gigolò e i trans. Vicino a casa mia c’era poi la sede della Croce Bianca di Milano, sono andato lì e ho conosciuto il presidente, che ha compreso lo spirito del progetto. Mi ha permesso così di fare un po’ di notti con loro. Ho trovato grande disponibilità da parte della città, da ogni contatto, nasceva un nuovo contatto.
Le tue foto non sono mai scontate, c’è sempre molta vitalità e sense of humor, anche quando racconti una pandemia.
Bisogna stare molto attenti a stare su un filo molto sottile che sta tra la retorica e l’umorismo un po’ scontato, io sono alla ricerca di quest’aspetto della vita, che è quello che poi mi interessa. Cerco di raggiungerlo osservando. Anche se non faccio foto rubate, è tutto costruito, ma l’ispirazione parte da situazioni reali.
Hai creato legami forti con i soggetti che hai ritratto?
La parte di produzione del progetto è una parte meravigliosa. Quando entro nella fase esecutiva ho una forza di volontà che mi fa fare cose che non farei mai senza una macchina fotografica in mano. Mi trasformo e trovo il coraggio e la sfacciataggine di raggiungere il risultato che voglio. Si instaura sempre un rapporto imprevedibile con le persone che incontri. Le persone che scelgo sono sempre molto interessanti. Non sempre vogliono farsi fotografare e quando capita, spesso penso di aver perso una gran foto.
È stato facile fotografare i tuoi vicini?
Avevo vissuto in quel palazzo per sei anni e in fondo avevo un rapporto molto superficiale con i condomini. Grazie a questo progetto ho instaurato un rapporto molto bello con loro, soprattutto con Marisa, la vicina di appartamento, che è diventata una grande amica. Li intervistavo insieme mentre li fotografavo e ogni storia è diventata carbone che ha alimentato l’intero progetto. Marisa è diventata la mia musa, tanto che l’ho anche fotografata quando ho iniziato il lavoro sui nudisti. Non avrei mai immaginato, prima del progetto, che la mia vicina di casa di 85 anni, si facesse fotografare nuda. Lei è stata la prima che mi ha fatto intuire che questo progetto aveva un potenziale.
Raccontami della Croce Bianca.
La fotografia che espongo in mostra è davvero rappresentativa delle notti che ho passato con loro. Ho scelto la notte per due motivi, perché di notte la città si trasforma, soprattutto con la pioggia. Ho scelto le notti in cui lavoravano gli operatori volontari, perché mi interessava, visto il periodo tragico, conoscere chi lo faceva per scelta. Questo per me era un valore aggiunto, perché mostra che si tratta di persone davvero interessanti. Una sera l’operatore ha parcheggiato l’ambulanza per prelevare un caso di Covid e l’ho colto mentre attraversava la strada sotto la pioggia, illuminato da un lampione. È interessante anche vedere le differenze con cui le diverse categorie che intervistavo percepivano la pandemia. Per esempio, al contrario dei volontari della Croce Bianca, i sinti erano molto fatalisti, erano maggiormente preoccupati per altri problemi che loro ritenevano più importanti, come la mancanza di lavoro. Ho notato lo stesso atteggiamento tra i senza tetto, durante la pandemia, sono stati colpiti da una doppia emarginazione. Se già normalmente sono ai margini della società, con la pandemia il lavoro è scarseggiato ancora più del solito e la gente li guardava con ancora più sospetto di quanto già non lo facesse normalmente. Le famiglie sinti si sono aperte moltissimo, anche perché già le conoscevo, perché avevo fatto con loro un progetto con Oliviero Toscani. Ogni volta che ci lavoro insieme, rimango colpito dalla loro umanità.
Hai fotografato anche gli escort.
Ho iniziato leggendo gli annunci online e velocemente ho capito che gratuitamente non si faceva fotografare nessuno. Ho deciso quindi di investire i soldi del cosiddetto bonus Conte per le partite iva, che avevo preso perché il mio lavoro commerciale era completamente fermo, offrendo 50 euro agli escort, sia uomini, donne che trans che si sarebbero fatti fotografare. La prima escort che mi ha risposto era una trans e mi ha fregato. Mi ha chiesto di farle, prima di incontrarla per le foto, una ricarica della poste pay di cinquanta euro, che io, un po’ ingenuamente, ho fatto. Ovviamente è sparita. In compenso, poi ho incontrato una splendida transessuale argentina, che non ha voluto nemmeno essere pagata. Poi c’è stata un’altra trans, che dopo le foto, ci ha provato. Insomma, sono state tutte situazioni interessanti, istruttive e allegre. Ho poi fotografato un attore porno e gigolò bisessuale di nome Luca, appassionato di Futurismo.
Come hai trovato i preti che hai fotografato?
I preti sono stati la categoria più difficile da trovare, la maggioranza erano gentili, quasi democristiani, ma rifiutavano tutti. Alla fine ne ho trovati sei che hanno capito fino in fondo il progetto, tanto da aver firmato anche la liberatoria, per il libro che è nato da “Working Class Virus” e che verrà pubblicato da Il Randagio Edizioni. Una delle foto in mostra rappresenta un prete seduto davanti a un tavolo per la confessione con una grande schermatura in plexiglas. Una foto che secondo me racconta perfettamente cosa succede nelle chiese in questi mesi. Con i necrofori sono invece entrato, vestito come uno di loro, in molte camere mortuarie. È stata un’esperienza molto toccante.
Mi racconti dei food raiser?
Per avvicinare i food raiser avevo invece trovato un luogo vicino a Porta Ticinese dove fanno la pausa pranzo, tra una consegna e un’altra. Non è stato facile perché proprio in quei giorni un giornalista aveva scritto un pezzo in cui sosteneva che i food raiser non rispettassero le norme anti covid. Si tratta di una categoria già abbastanza emarginata, perdipiù in quel periodo erano pure etichettati come quelli che favorivano la diffusione del covid. Poco a poco, dopo molti no, sono riuscito a fotografarli.
Mi racconti gli altri progetti che compongono la mostra?
Dopo “Working Class Virus”, ho lavorato su altri tre progetti nati sotto l’ombrello del coronavirus. Se il primo progetto era strettamente milanese, nel periodo estivo ho deciso di espandere il mio lavoro fotografico a tematiche di livello nazionale e internazionale. Ho quindi pensato sedici foto iconiche. Ne ho fatta una con un uomo abbronzatissimo, ma con la pelle bianchissima attorno alla bocca e al naso, perché ha preso il sole con la mascherina. Visto poi che Salvini continuava a parlare contro i migranti, ne ho fatta un’altra con un ragazzo di colore che indossa una mascherina con la bandiera italiana. Poi c’è un tifoso che sembra cattivissimo, ma in realtà piange per la morte di Maradona. Per Halloween c’è una bambina con una mascherina di Tik Tok, assuefatta dalla tecnologia e nel periodo di Natale la foto inquadra un Babbo Natale molto anziano, morto. Vi è poi una donna nuda con scritto sulla pelle “No Mask” e come contraltare vi è la foto di un medico tutto bardato con la famosa scritta “stay home”. Per le presidenziali americane c’è una fotografia con un mio amico che indossa una maschera di Trump, che interpreta un presidente speranzoso per la rielezione, con una mano dietro alla schiena e come contraltare una foto con una modella che interpreta Greta con l’iconico impermeabile giallo e la mano dietro la schiena. Poi c’è un anziano con un termometro puntato alla testa come se fosse una pistola e una ragazza cinese che fa un tampone. Le altre foto rappresentano un ragazzo con la pancetta che sta a casa a poltrire sul divano, mentre in un’altra c’è un cane con una mascherina legata al guinzaglio. Durante il lockdown portare fuori il cane era diventato un po’ la scusa perfetta per uscire. Il cane nella foto ha un volto sconsolato dalle troppe passeggiate. Poi c’è anche un body builder con la ormai mitica bottiglietta di amuchina, come se fosse un eroe dei fumetti. Insomma, tutte foto che rappresentano figure ormai quasi iconiche, come calamite da mettere sul frigorifero.
Com’è nata l’idea di fotografare i naturisti?
Da cosa nasce cosa, e dai “no mask”, siamo passati ai naturisti. Un giorno mi dimenticai la mascherina, senza rendermi conto, appena me ne accorsi, compresi che la gente mi guardava male. Pur essendo assolutamente favorevole a metterla, ho realizzato che non indossarla, è considerato più sconveniente che andare nudo per strada. È diventato il nuovo tabù. Andreea, la mia compagna, ha quindi contattato l’associazione dei naturisti, lei è il mio braccio operativo. È lei che ha spesso le intuizioni e che mi ha suggerito di chiedere anche a Marisa, la nostra vicina ottancinquenne, se voleva essere fotografata nuda. Lei ha sorprendentemente accettato.
Hai affrontato anche il tema delle disparità economiche durante la pandemia.
L’ultima parte del progetto è quella che ho chiamato dei “ricchi e poveri”. Volevo addentrarmi sull’interazione tra mascherina e volto e ho compreso che poteva essere interessante categorizzare gli estremi, i ricchi e i poveri. Per i poveri mi sono recato presso le associazioni Pane Quotidiano e Area 51, dove fa il volontario anche Jenny lo Zio, che avevo fotografato nei panni del tifoso triste per la morte di Maradona. In zona via Montenapoleone ho intervistato i ricchi, cosa che è stato molto più difficile, perché vivono di apparenze. A lavoro concluso ho notato una cosa che mi ha sorpreso, lo sguardo dei poveri e dei ricchi stranamente era molto simili, era triste, quasi impotente. Non so se per i poveri fosse dovuto alla pandemia, ma per i ricchi penso di sì.
Quali sensazioni ti ha lasciato il progetto su quest’anno di pandemia?
Sicuramente io ne sono uscito più riflessivo, due anni fa non avrei mai potuto fare un progetto del genere. Sarei stato impegnato nei miei lavori commerciali. In questa fase ho invece compreso sempre di più che non si può recuperare il tempo perso. C’è una ricerca che mi perseguita ed è indagare sul senso della vita. Prima o poi moriamo tutti e non esiste una persona che non si pone queste domande, se non i bambini piccoli o chi ha l’alzheimer. Non è possibile avere la risposta a questa domanda esistenziale, ma mi piace sentire tutti i punti di vista differenti. Mi basta sentire le risposte, per essere soddisfatto. Nella fase di post produzione mi piace mischiare tutti questi punti di vista. Per questo sto facendo il progetto sulla linea autobus 90, perché è come una metafora della vita, gira sempre in tondo, ci sale chiunque, tutti con storie diversissime. Ogni punto di vista diventa potenzialmente vero, perché nessuno è dimostrabile, sia che sia religioso o laico. Questo genere di approccio l’ho esteso al progetto sulla pandemia. Fellini disse in un’intervista prima di morire, che nonostante religiosi, filosofi e scienziati tentassero da sempre di capire il senso dell’esistenza, alla fine la vita è solamente una canzonetta.
Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.