L’artista turca Cansu Çakar è protagonista in questi giorni della sua prima personale a Istanbul, presso la galleria artSümer. Noi l’abbiamo incontrata a Napoli, durante il suo soggiorno in città.

Di Luca Fortis

Cansu Çakar è un’artista turca che vive a Smirne. Indaga le forme d’arte tradizionali turche, come il disegno decorativo e quella che in Turchia viene chiamata l’arte “dell’illuminazione”, e le integra con pratiche e significati tipici dell’arte contemporanea. Così esprime il suo desiderio di liberare le forme espressive tradizionali dalla loro classificazione stereotipata. I suoi disegni e dipinti, insieme ai concetti che esplora nei suoi laboratori, mettono in discussione criticamente i tipici soggetti, dominati dagli uomini, della tradizionale pittura in miniatura.
Çakar traccia una linea tra ciò che significa essere una donna o una prigioniera in una società oppressiva e l’estetica delle arti tradizionali nel mondo dell’arte contemporanea. Entrambe condividono la lotta contro il conservatorismo e la conseguente lotta per l’emancipazione.
Abbiamo incontrato Cansu Çakar a Napoli, durante un soggiorno dell’artista nella città partenopea organizzato da “Neapolitan Dialogues”, scambio di residenze di artisti tra Napoli, Istanbul e Lisbona, presso Fondazione Morra, curata da Vittorio Urbani e promossa da T-One Foundation e Elgiz Musem di Istanbul.

Cansu Çakar

A Istanbul, hai appena inaugurato la tua prima mostra personale. Ce ne parli?
Sì, presso la galleria artSümer di Istanbul, la mostra è intitolata “Hat ve Hata” e sarà visitabile fino all’11 marzo. Eliminando i confini esistenti della superficie terrestre, nella mia mostra”Hat ve Hata” cerco di disegnarne di nuovi, ispirandomi al rapporto tra le parole “hat ve hata”, scrittura/linea e pietà/peccato”, che condividono le stesse radici sia in turco che in arabo. Cerco di creare uno spazio in cui queste connessioni possano germogliare e crescere.
Le strutture architettoniche che sono spesso oggetto delle mie opere, i resti di un patrimonio storico e culturale, invitano lo spettatore a interpretazioni errate. Immagini e frasi storiche si riferiscono al presente, accompagnate da un modo di esprimersi satirico.

Cansu Çakar, ArtSümer, Istambul

Quando hai compreso che volevi diventare una artista?
Non pensavo al liceo di diventare artista, per un po’ ho aiutato un amico a fare un esame per entrare nell’Accademia d’Arte. Un giorno ero depressa e l’insegnante del mio amico mi disse: “Oggi invece di fare la modella, disegna anche te”. Fu così sorpresa dal risultato, che decise di preparami gratuitamente per l’esame. All’Accademia d’Arte Turca ci sono tre dipartimenti, uno sul design dei tappeti, uno su quello delle ceramiche e piastrelle ed uno chiamato “Illumination”, in cui si studia calligrafia, miniature e il loro restauro.

Cansu Çakar, ArtSümer, Istambul

Quale hai scelto?
Illumination, si tratta di un ambito molto complesso e io ero interessata alla letteratura e alla storia e la teoria dell’arte tradizionale per me era molto importante.
La Turchia è un ponte tra l’Est e l’Ovest e anche la scuola d’Arte riflette questo ponte. Volevo padroneggiare la tecnica orientale, per diventare un’artista e una graphic designer che connettesse l’Oriente con l’Occidente.
La mia famiglia è laica e all’inizio era sorpresa dalla mia scelta di studi, la trovava conservatrice e pensavano che fosse un mondo legato alla religione e non all’arte. All’inizio non capivano che la mia idea era di distorcere le tecniche tradizionali per raccontare qualcosa di contemporaneo.
All’accademia inizialmente ti fanno copiare sempre le stesse cose, forse per questo ho cominciato a collaborare con gallerie di arte contemporanea, lavorando come assistente di artisti molto importanti in Turchia. Da tutti loro ho appreso tanto e ho potuto miscelare l’arte contemporanea con i miei studi di arte tradizionale. Di solito chi studia “Illuminazione”, si occupa delle decorazioni del Corano e testi religiosi, è un mondo che non si mischia con l’arte contemporanea. Quindi anni fa, quando iniziai, vi era un gap tra queste due arti che non si mischiavano. “Illumination”, era un dipartimento che da sempre era legato al palazzo imperiale, quando le miniature non parlavano del corano, rappresentavano la famiglia imperiale o i ghazal, le poesie. Si scriveva la poesia e si lasciava uno spazio accanto dove i miniaturisti disegnavano quello che la poesia descriveva.

Holy Tulip, 2013

Come lavoravano i miniaturisti?
I miniaturisti lasciavano molti spazi vuoti nei loro disegni, in modo tale che il lettore potesse commentare cosa stesse accadendo nel disegno. Se ci fossero troppe immagini, il lettore non riuscirebbe a commentare bene. Sono immagini pluri-sprospettiche, le si può guardare da vari lati, non vi è una prospettiva unica.

Come cambi il significato tradizionale delle miniature?
Non copio le miniature antiche o i loro contenuti, ma distorco il loro contenuto e significato.
Per un certo periodo ho insegnato “Illumination” in carcere a cinquanta prigionieri uomini. Per fare miniature ci vuole molta pazienza e anche per stare in carcere ce ne vuole molta. Ho anche fatto un workshop in Giordania, soprattutto con palestinesi. Con loro ho lavorato con le mappe, in passato vi erano miniaturisti ottomani specializzati in mappe, carte che raccontavano i territori dell’Impero o itinerari di viaggio. Vi sono molte esitazioni, perché al tempo non si sapeva fare mappe precise, erano quasi delle opere d’arte.
Erano ambigue, un po’ arte e un po’ carte geografiche. Con le donne palestinesi abbiamo fatto mappe della Palestina.
Ho fatto anche un workshop in Cappadocia, con una famosa curatrice turca, Fulya Erdemci, da poco scomparsa. Abbiamo osservato che le donne in Cappadocia vendevano ai turisti tappeti e materiali tessili, i cui motivi erano stati stereotipati, perdendo i loro antichi significati, diventando kitch.
Abbiamo insegnato loro come ricreare i motivi originali dell’Anatolia. Perché anche se non ne siamo più consapevoli, questi motivi sono un linguaggio che ci parla in modo subliminale.

Mi parli di come modifichi il significato e il linguaggio delle miniature?
Per esempio creo miniature da notizie di cronaca. In “Omicidio di una donna posseduta” descrivo la morte di una figlia racconta attraverso le parole dei vicini di casa. La notizia riportava che secondo i vicini il padre era impazzito e dopo aver camminato per i campi tutta la notte, fino all’alba, parlando con gli spaventapasseri, tornò a casa e uccise sua figlia che prepara la colazione.
I vicini raccontano che secondo loro era sotto l’influenza di un jiin, uno spiritello tipico della tradizione islamica.
Analizzando bene la notizia, è probabile che si tratti di un delitto d’onore e che il villaggio utilizzi la storia del jiin per difendere un padre che ha ucciso la figlia, magari colpevole di qualche pettegolezzo del paese o innamorata.
Gli ho rappresentati come un albero tradizionale della mitologia iraniana e persiana, chiamato Vak Vak, un albero che da frutti, che sono teste di persone. Ho rappresentato quindi le facce delle persone della famiglia come fossero frutti dell’albero. I volti hanno tracce di sangue. Ho disegnato il campo con lo spaventapasseri dove il padre sarebbe impazzito, ho descritto la casa internamente, grazie alla mia fantasia.
Ho messo oggetti simbolici, come una forma di pane d’oro vicino alle radici dell’albero, perché la famiglia appartiene alla parte più povera della società ed è sempre alla ricerca di pane e cibo in generale. Sono analfabeti e la mancanza di educazione è probabilmente la causa di questo omicidio.
La cosa tragica è che la notizia dimostra come tutti si siano inventati una storia, quella del jiin, pur di proteggere l’assassino e come anche il giornalista abbia di fatto avvallato questa tesi.
Ecco che parlando di cronaca, utilizzo la tecnica delle miniature, ma ne stravolgo il significato. Inoltre le miniature sono fatte per i libri, non per essere incorniciate.

Come nasce il tuo rapporto con le mappe?
Un giorno un amico pittore mi chiese di dipingere una mappa di Smirne nello stile delle miniature per una mostra che doveva fare. Io ne fui entusiasta e feci un lavoro in chiave umoristica. Il mio amico quando la vide, mi disse che dovevo ancora finirla. Io gli dissi che era finita così, che non era un quadro, ma una miniatura e che aveva i suoi spazi vuoti e le sue esitazioni. Gli aggiunsi che avrebbe potuto essere una bella sfida per i visitatori della mostra. Lui non era convinto ed a quel punto me la tenni.
Oggi è nella collezione permanente della Deutsche Bank. È stata scelta personalmente dal loro curatore, Alistair Hicks, che la fece comprare dopo una visita al mio studio, è anche presente nella loro pubblicazione.

Mi parli di Circumcision Feast?
Circumcision Feast parla anch’esso di un fatto di cronaca, in Turchia le donne possono chiedere un congedo lavorativo il primo giorno in cui hanno il ciclo.
Un’avvocatessa femminista, contraria a questa usanza, provocatoriamente ha dichiarato che essa crea una situazione simile a quando i maschi fanno una festa per la loro circoncisione. Ha detto che è un modo per far vedere che hanno una vagina. Sono rimasta colpita da come pure le femministe possano prendere una cantonata.
Nell’opera ho messo una vagina con il sangue, sangue ovunque e organi genitali maschili che vengono tagliati, tutto nello stile delle miniature.

Hai fatto un’opera sull’omicidio di una donna trans.
Sì, Close Court Hearing racconta il processo, a udienze chiuse, per l’omicidio di una donna trans. Utilizzo il linguaggio distorto che di solito viene usato dai media, ma in realtà sto raccontando tutti gli omicidi di donne in Turchia.

Nei tuoi lavori parli anche di migranti.
Si, “Pasha” è la rappresentazione di Tevfik Pasha Mansion, che è uno degli edifici importanti nell’area conosciuta come Oteller Street a Izmir Basmane e che apparteneva alla famiglia Tevfik Pasha, circa un secolo fa. Nel tempo, è stato convertito in un hotel, chiamato Sadık Akseki Hotel, per poi, una volta dismesso, essere occupato da migranti che cercano speranza in Europa attraverso il Mar Egeo. Era diventato un un luogo in cui centinaia di persone si rannicchiavano in un angolo seppellendo le loro speranze nei cuscini, speranze intrappolate in un luogo freddo e insincero. Pensando all’opera ho sccritto: “Il sipario che si toglie quando soffia il vento mostra l’interno della villa, le stanze sono vuote. Una trapunta non può essere una nuvola, ma le nuvole sono le trapunte sopra di noi.”

Ha toccato nelle tue opere anche temi ambientali, me ne parli?
Durante la costruzione di un ponte sul bosforo, nel quartiere in cui vivevo, sono venuta a conoscenza di tutti gli svantaggi che la costruzione di questo ponte comportava.
Hanno distrutto la natura per costruirlo, spedendo moltissimi soldi. Così è nata l’opera “The Bridge” in cui ho descritto con la tecnica della miniatura, tutti i punti critici di quest’opera della contemporaneità.

Hai fatto anche un lavoro sulle miniere d’oro.
Ho fatto un’opera chiamata “Gold Mountain” su una miniera d’oro, vicino alla montagna Ida, dalle parti di Troia, zona ricca di siti archeologici.
Stanno creando un vero disastro ambientale. L’oro in Turchia è detassato perché si usa per fare le miniature per il Corano. Anche io, quando lo vado a compare, lo prendo nel negozio di un islamico radicale.
In un suo frammento, Eraclito dice: “Gli asini preferiscono la paglia all’oro”. L’umanità degli esseri umani risiede quindi nella preferenza dell’oro estratto dalle viscere della montagna rispetto alla montagna stessa? Oppure la colpa è di coloro che non riescono a relazionarsi con il vero valore della montagna, coloro che non possono vedere come i contorni della montagna sotto il cielo irradiano il suo splendore alle persone e come la montagna e i suoi dintorni possano essere visti solo in questa incandescenza. Il Monte Ida” continua ad abitare nella sua radiosa dimora velata da questa cecità.

Per concludere mi racconti un aneddoto che ti sta particolarmente a cuore?
Durante un corso, una transgender, una casalinga e una rifugiata siriana, dopo 15 minuti in cui gli ho insegnato “Illumination” e bevevano il thè, incominciarono a parlare di serie tv turche. Ho chiamato quel momento: “Boiling point”.

cakarcansu.com

Di Luca Fortis Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.