Lo opere di Luca Monterastelli sono in mostra alla Galleria Lia Rumma di Napoli. La nostra intervista all’artista.

La Galleria Lia Rumma di Napoli ospita la mostra personale di Luca Monterastelli dal titolo Weightless. L’artista, nato a Forlimpopoli nel 1983, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Negli anni Monterastelli ha tenuto molte mostre personali, tra cui Old Masters, Keteleer gallery, Antwerp, 2020; To Build a Fire, Lia Rumma gallery, Milano, 2017; Fight Songs, Villa Mondolfo, Como, 2017; How To Make a Hero, Deweer Gallery, Otegem, 2017; The Close of the Silver Age, Fonderia Battaglia by Lia Rumma gallery, Milano, 2015; {White}, curata da S. Frangi e M. Tagliafierro, viafarini DOCVA, Milano, 2013.

La ricerca di Luca Monterastelli parte da alcuni dei principi base della scultura, come “il peso, la trasferibilità della nostra energia su un corpo oggettuale, la percezione delle tre dimensioni, il rapporto tra superficie e massa”. E lo fa servendosi di diversi materiali: gesso, terracotta, cemento, ferro. Si tratta di materiali scelti per il potenziale metaforico di trasformazione che ognuno di essi racchiude, ma anche per il valore simbolico e politico del loro uso nella storia. Monterastelli decostruisce le forme per riscriverle in un corpo a corpo di tensione narrativa. In Weightless i nuovi lavori scultorei di Monterastelli s’interrogano su quel che passa dalla gravità al pesare nulla, come recita il titolo della personale. L’artista parla di come funziona la memoria, della genesi della narrazione e della sua puntuale corruzione. Per Monterastelli “Napoli sembra essere il luogo giusto per questo progetto: è una città piena di fantasmi e i fantasmi sono versi della storia”.

© Luca Monterastelli, Weightless
© Luca Monterastelli, Weightless

Nella prima sessione della mostra sono esposti una serie di bassorilievi in cemento armato montati a parete su cui l’artista ha disegnato o inciso fragili e poetiche forme organiche, quasi dei fossili, che appaiono come schiacciate dal peso della pietra che le trattiene e dalla quale cercano di liberarsi. Nell’ambiente successivo ci sono delle terrecotte bianche disposte su tre cavalletti da scultore che dialogano con quelle dei lupanari del Gabinetto Segreto del Museo Archeologico di Napoli. Una conversazione erotica muta, dove si ricorda l’amore, l’abuso e il potere, che prosegue nella stanza successiva anche in una serie di opere in ferro e pietra della Majella, dove però il cortocircuito è tra l’estasi ascetica e religiosa e quella sessuale. Nell’ultima stanza, è allestita una stele di ferro incisa dal plasma del fuoco, con la materia rappresa mano a mano che colava e con effetti cromatici citrici, quasi alchemici, che “posiziona esattamente la scultura a metà tra due mondi, tra quello che si dona allo sguardo tramite la superficie e quello che si nasconde nella densità della massa”. Insieme alla stele ritorna la terracotta in tre nudi virili posti su altrettanti troni “dorati”, ancora corpi erotici che non possono toccarsi. Da una delle pareti di questa stanza sbucano quattro tubi in ferro incisi dal plasma del fuoco, come la stele, che provengono dall’altro lato del muro della prima stanza dei bassorilievi. “Volevo un passaggio – racconta Monterastelli – per ritornare al via e poi ancora alla fine e via dicendo”. Il cosiddetto passaggio dalla gravità al “pesare nulla”. Luca Monterastelli racconta una storia con la materia, con l’ossessione di comprendere che nel non finito c’è già tutto e al tempo stesso, nel finito non tutto è scritto per sempre. Per conoscere meglio l’artista, FACE Magazine.it ha intervistato Luca Monterastelli.

Com’è nata la mostra per Lia Rumma a Napoli?
Lia mi chiese una mostra su Napoli appena iniziammo a lavorare assieme. Mi sono preso il mio tempo per pensarci bene, per sezionare cosa renda una città tale e poi individuare i tratti di questa città così particolare. Sono voluto partire dalle storie minime: quelle delle persone che l’hanno abitata, da tutte quelle particelle che, viste assieme, formano la grande storia.
Ho cercato i segni del loro passaggio su i muri che ne continuano a decidere i movimenti. Ho trasportato questo ricordo in queste forme che affiorano dall’interno della materia, in qualcosa che ricordasse un’organicità passata. Come un fossile che ha nelle pieghe dei suoi rilievi una nostalgia della vita, così sono arrivato a questi fantasmi della materia. Questa la linea di passaggio che dà il titolo, “Pesare Nulla”, alla mostra.

© Luca Monterastelli, To Build a Fire
© Luca Monterastelli, To Build a Fire

La chiave di volta per l’ispirazione per la mostra su Napoli sono state quindi le microstorie delle persone del presente, come del passato?
Anche, ti spiego. Il libro di ogni città è scritto dalle persone che la vivono. Sedersi in un bar, spostarne le sedie facendole toccare con disattenzione nello stesso punto, accorciare l’angolo che definisce lo spigolo di un edificio urtandone con l’abito l’estremità, ogni gesto lascia una memoria. Questo lento processo espone come ognuno obbedisca allo stesso istinto. E siccome trovare le ragioni con cui si comandano gli istinti è una delle basi della mia ricerca, ho lasciato spazio a questa intuizione.
Napoli ha una grande narrazione, millenaria, che non avevo nessuna voglia di scomodare. Questo calco negativo della parte vitale, invece, mi è subito sembrato un modo per raccontare qualcosa di nuovo. Non so ancora se vi sia stato un moto di tenerezza o una visione estremamente asciutta dei nostri costrutti, ma sono soddisfatto di come l’installazione finale lavori.

Nel tuo lavoro rifletti molto sul rapporto tra arte, architettura e propaganda di Stato, me ne parli?
Sono sempre stato affascinato ai modi cui l’arte si piega, o è piegata, a sostenere un certo tipo di narrazione. Il contributo di tutti gli attori culturali è indispensabile nel creare quell’epica, che prima definisce un’identità, e poi una legittimazione di qualsiasi cosa. Funziona così, un po’ da sempre. E continua a funzionare piuttosto bene. Sia che riguardi una dittatura, una multinazionale, o la soddisfazione di un algoritmo.
La definizione dell’aurea dell’autorità, dipende in modo fondamentale dal linguaggio artistico che in quel momento ne occupa il territorio di competenza.

Il rapporto tra arte e propaganda è un tema antico.
Sì, che si fa sempre più interessante a partire dalla Controriforma. In quel periodo storico la chiesa romana ha portato alle estreme conseguenze questo rapporto, imponendo la propaganda incanalata dal barocco come stile internazionale. Poi, a mio avviso, la questione sì è evoluta fino ad arrivare al paradosso di un’alienazione della “machina” propagandistica dal suo centro celebrativo. Ma non vorrei allargare troppo la questione; la modernità ha semplificato i linguaggi lasciandoci una facilità di lettura che ci consente di identificare tutte le sezioni del corpo autoritario senza troppa difficoltà.
Cemento armato, vetro, acciaio, sono tutti elementi della modernità a livello globale. L’uso che ne faccio è funzionale; non ho un particolare interesse per questi materiali, e nessuno di loro ha una simbologia complessa per sé. Sono piuttosto parte di una tavolozza semantica da cui prendere per strutturare l’installazione finale.

© Luca Monterastelli, Old Masters
© Luca Monterastelli, Old Masters

L’architettura diventa un palcoscenico per il potere che si rappresenta?
Non solo. Diventa essa stessa parte di ciò che è chiamata a rappresentare, smette di essere simbolo e diventa il vero e proprio corpo dell’autorità. C’è sempre da fare una differenza su queste sfumature, il potere può essere un’entità astratta, comunque qualcosa a cui si può fare avversione; mentre il senso dell’autorità è una presenza reale, necessaria e integrata a ogni costrutto. Imprescindibile alla creazione di qualsiasi mondo condiviso. Il potere deve darti una simbologia in cui credere, sulla quale legittimarsi e costruire un mondo; ma crolla appena perde l’aurea dell’autorità. Architettura e arte si nutrono, e nutrono, entrambe le fonti.

C’è un vaccino contro la propaganda, a parte la comprensione di come funziona il sistema?
C’è ed è quello che cerco di fare con il mio lavoro. La propaganda è un modo semplice ed efficace di legittimare un potere; ma è anche un linguaggio fragile, pronto a rompersi non appena se ne mostra il meccanismo.
Una volta esposto il modo in cui funziona, la magia evapora mentre le ragioni di qualsiasi fede crollano.

© Luca Monterastelli, How To Make a Hero
© Luca Monterastelli, How To Make a Hero

Alcune opere della mostra sono ispirate al Gabinetto Segreto del Museo Archeologico di Napoli, com’è nata questa “conversazione erotica muta”, dove si ricorda l’amore, l’abuso e il potere?
Devo ammettere di aver sempre voluto fare un’opera a partire dal linguaggio delle suppellettili destinate ai lupanari esposti all’Archeologico di Napoli. Ho scelto di modificarne il colore della terracotta, portandolo su un bianco caldo, e le variazioni anatomiche, rendendole più vicine a quelle del ritorno all’ordine rispetto a quelle pompeiane. Volevo esaltare la vuotezza di quei corpi, il loro fallimento animale, l’incapacità produttiva e l’inattitudine all’atto. Ho scelto di installarli su questi supporti a metà tra un cavalletto da scultore e dei pistoni. Credo si crei una bella tensione tra queste figure, inadatte al normale gioco di potere che la sessualità pone.

Alcune tue opere creano un nesso tra l’estasi ascetica e religiosa e quella sessuale, me ne parli?
Nell’istallazione “Oh Chrome, Oh Precious Chrome, What We Have It’s Just Seafoam”, per esempio, ho utilizzato la pietra della Majella. Partendo dal suo essere fondamentale per la statuaria dei monasteri dell’Abruzzo medievale, ne ho accentuato l’associazione con l’ascetismo, e quindi l’estasi. Ne ho quindi ricavato degli insiemi di organi sessuali grezzi, come fosse una visione dell’atto nell’atto, scavati direttamente nella pietra, per poi installarli su questi tubi di acciaio tagliati.
Il discorso, dunque, riprende un po’ quello che ho appena detto. Credo che il linguaggio pornografico e il barocco abbiano tanto in comune e che, ad avere il tempo di analizzare bene quel meccanismo di alienazione di cui ti accennavo prima, siano parenti stretti. Comunque il corpo dei santi, come quello degli eroi, è sempre stato un territorio dell’autorità, che il potere è stato costretto ad assecondare. Territorio complesso, capace di estendersi fino alle questioni più oscure della sacralità, ma pur mantenendo le caratteristiche fisiche del corpo. Il momento dell’estasi, come quello del martirio, sono attimi apicali e impossibili da riprodurre con una semplice astrazione. Ma sono anche quegli attimi che, se risolti, possono rafforzare la lingua di un potere in modo massimale. L’estasi erotica è probabilmente il modo migliore per rappresentare questo “bordo”di passaggio; il limbo in cui il sacro e il “bordo” del reale convivono.

 


Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.