Quattro giorni di evento, 220mila biglietti staccati per oltre 400mila presenze, più di 700 stand su 75mila metri quadri. Lucca Comics & Games continua a dare i numeri, confermandosi una delle manifestazioni di settore più riuscite, nell’edizione che precede il suo cinquantesimo compleanno. Ma non è solo la suggestiva cornice della città toscana a renderla unica, è anche l’entusiasmo di un esercito di appassionati e cosplayer. Un pubblico che è sempre più difficile definire “di nicchia”, e un nutrito gruppo di professionisti dell’animazione, del cinema, del gaming e del fumetto. Tra questi ultimi, spicca un drappello di donne agguerrite e competenti. In questo speciale ve ne presenteremo due, e hanno un amico in comune: Dylan Dog. La prima è Barbara Baraldi, che abbiamo intervistato alla vigilia di questo evento spettacolare.
Noi c’eravamo ed ecco cosa è stato .
Sceneggiatrice, ma soprattutto scrittrice, la “regina del gotico italiano” ha esordito di recente nella serie regolare di Dylan Dog con La mano sbagliata. In questa intervista, Barbara Baraldi ci parla dei molteplici volti della sua ispirazione.
Tu hai iniziato la tua carriera con il noir, ma sei anche un’autrice di Young Adult molto amata. Diversi autori trovano difficile la transizione da un pubblico all’altro. Nel suo primo romanzo destinato ai lettori adulti, J.K. Rowling ha messo in scena una moltitudine di personaggi, ma forse i più riusciti sono proprio gli adolescenti.
Tu hai una preferenza?
Credo che il periodo dell’adolescenza sia straordinariamente interessante da sviscerare a livello narrativo. La transizione tra l’età infantile e l’età adulta è talmente ricca di entusiasmo, di tormento, di “prime volte” che non smette di scatenare riflessioni. Per questo, forse, in ognuno dei miei romanzi è presente la figura di un adolescente, a prescindere dal pubblico di riferimento. L’adolescente non smette di porsi domande, è alla ricerca di se stesso ed è disposto a fare follie per proseguire la sua ricerca. Come insegnante di scrittura nelle scuole medie e nei licei entro in contatto con tantissimi adolescenti, ed è straordinaria la sensibilità e la creatività, ma anche il senso di giustizia, che li caratterizza. Vale davvero la pena sacrificare i propri sogni per “diventare grande”? Credo che non dovremmo mai perdere di vista l’adolescente che è in noi, non dovremmo mai smettere di chiederci chi siamo, di domandarci se qualcosa è giusto, o se la vita che stiamo vivendo è quella che vogliamo davvero.
A proposito di transizioni, molti critici italiani sembrano credere che il fumetto sia un’arte ancora “adolescente”. Da sceneggiatrice, pensi che il graphic novel possa rivendicare un posto accanto ai romanzi letterari?
Considerare il fumetto un’arte in qualche modo immatura significa averne letti pochi (e probabilmente male), non averne compreso profondità e potenzialità. Tuttavia, graphic novel e romanzi sono forme di espressione diverse, con metodi di fruizione e risultati diversi. In ogni caso, personalmente non considero il fumetto seriale meno dignitoso – o meno impegnato – rispetto alle graphic novel (chiedo scusa ai puristi della lingua se mi ostino a usare il femminile). Dopotutto, negli Stati Uniti le graphic novel sono per la maggior parte raccolte di fumetti seriali usciti a cadenza mensile. In Francia e in Belgio album a fumetti seriali e autoconclusivi hanno il medesimo formato editoriale, con carta pregiata e copertina cartonata. La tendenza a immaginare mezzi di espressione di serie “A” o di serie “B” è un vizio tutto italiano di cui auspico una veloce estinzione. Se il materiale di partenza è buono, non importa che diventi un film, un fumetto o un romanzo, avrà comunque la potenzialità per diventare un buon film, un buon fumetto o un buon romanzo e soprattutto per lasciare qualcosa al lettore, anche dopo aver chiuso l’ultima pagina.
Prima del tuo esordio nella serie regolare, hai già scritto un DYD in passato, per il Color Fest. Era una storia dai toni intimi, che parlava di una promessa d’amore immortale – un tema a te caro – e ci offriva un insolito scorcio sui momenti felici dell’infanzia di Dylan. In merito al futuro, che ne pensi di questo nuovo corso della serie? Quali sono i cambiamenti che ti sono piaciuti di più?
Il nuovo corso di Dylan è un cantiere in evoluzione. L’inserimento dei nuovi personaggi è in grado di generare nuovi conflitti e sviluppi, anche se sono sicura che le dinamiche più interessanti siano ancora dietro l’angolo. Il Dylan della “Fase Due” è un Dylan in affanno, in costante difficoltà, con poche certezze e molte insicurezze. In un certo senso, si tratta di un vero e proprio ritorno alle origini. Ho sempre pensato al Dylan sclaviano come uno di noi, una persona tutto sommato normale che si trova a fronteggiare situazioni eccezionali, dilemmi più grandi di lui. Che ogni albo fosse in grado di suscitare più domande che risposte. Dylan è sempre stato difficile da definire per le molte anime che il suo creatore gli ha donato. Soprattutto, credo che Dylan – non solo per la tematica horror di fondo – sia un personaggio che sanguina, e che per ridare smalto alla serie sia necessario più che mai che lo sceneggiatore sia disposto a sanguinare insieme a lui. In questo, forse, consiste la sfida più difficile per Recchioni: restituire ai lettori incubi che profumano di realtà, incubi che (ricordando Stephen King) “ci diano la possibilità di esercitare quelle emozioni che la società ci impone di tenere sotto controllo”.
Uno dei tratti più incantevoli del fantasy è l’acquisizione di un potere da parte di chi solitamente non ne ha. Tuttavia, che si tratti di orfani rinchiusi in un sottoscala, di hobbit o di scudieri, i personaggi maschili miracolati dalle trame fantasy sono molti, mentre quelli femminili spesso devono accontentarsi di restare Cenerentole. Per lo meno fino a qualche anno fa. Tu sei stata all’avanguardia nel panorama italiano: le tue protagoniste di solito hanno un “potere”, in senso stretto o sotto forma di un talento peculiare. Ti ritieni una femminista?
Assolutamente sì. Femminista a oltranza, ferma sostenitrice della cultura e dell’arte femminile. Un impegno che estendo a tutte le minoranze che sono vittime di discriminazione. Considero il dibattito attuale sui diritti delle coppie omosessuali indegno di un Paese civile: siamo al punto in cui le chiacchiere dovrebbero “stare a zero” e la politica dovrebbe impegnarsi per aggiornare le nostre istituzioni almeno al livello degli altri paesi europei. Una delle caratteristiche positive del fantasy contemporaneo è proprio quello di dare voce agli “esclusi”. Spesso il fantastico è un pretesto per ricordare che la nostra forza interiore è più forte delle convenzioni, un invito a trovare la propria strada a dispetto delle consuetudini o di ciò che gli altri – la società, la famiglia – si aspettano da noi. Un invito a non perdere mai la propria diversità, a difenderla dagli assalti del conformismo, perché è di questo che è composta la società: di individui. Ognuno con la propria unicità.
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La protagonista de La mano sbagliata è una pittrice inquieta. In La ragazza dalle ali di serpente, Luna s’innamora di Miriam, a sua volta pittrice e artista di teatro off. Scarlett, che dà il nome all’omonima serie, ama la letteratura. Nella serie Striges, Zoe è addirittura una strega, e suona il pianoforte. Nel primo romanzo della saga scrivi: “Il Dono si può manifestare come una sensibilità particolare, una dote estremamente spiccata. Molte di noi sono artiste.” Tuttavia questi talenti portano sempre il segno della diversità, e rischiano di essere una condanna, oltre che un dono. Stai cercando di dirci qualcosa su quanto sia difficile essere un’artista in questo paese?
Una donna che fa arte, o s’impegna nella cultura, nel nostro Paese è ancora vista con diffidenza, a volte ostracizzata, persino dalle altre donne, troppo spesso schiacciate dal peso della mentalità e dai ricatti sociali che loro malgrado le condizionano. Non posso fare a meno di ricordare la frase del canonico Cesare Malvasia, che nel Seicento disse della pittrice Elisabetta Sirani che “dipingeva come un uomo”. Ecco, siamo ancora a questo punto: l’unicità femminile diventa interessante solo se riferita a modelli maschili. No, Elisabetta Sirani dipingeva come una donna sa fare, e ha dato la vita per dimostrarlo. Ma a secoli di distanza sembra che per farsi strada in questo settore il talento – che dovrebbe essere l’aspetto principale – non sia abbastanza: per affermarsi sono necessarie una razionalità, una determinazione e una forza di volontà incrollabili. Spesso le persone più creative sono anche le più fragili, e andrebbero incoraggiate. “Meritocrazia” in Italia è diventata una parola vuota, un concetto su cui pontificare ma su cui non “attuare” mai. E questo, purtroppo, non solo nell’ambito della cultura. È necessario un impegno collettivo per frantumare le barriere costruite da questa mentalità medievale, soffocante e distruttiva che continua a frenare la crescita culturale del Paese. Auspico una nuova stagione di solidarietà femminile che stabilisca una volta per tutte che una donna che fa cultura non è una sorta di pericolo per la società, né una specie rara da studiare a debita distanza, ma una risorsa preziosa, indispensabile per un vero progresso.
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Tra tutti i tuoi personaggi, ce n’è uno che sembra vivere di vita propria, che è apparso nella tua mente già del tutto formato?
Credo che i personaggi esistano già da qualche parte, e che lo scrittore sia un medium in grado di portarli nel nostro mondo. Per questo, ogni storia che scrivo nasce da un personaggio che mi è venuto a visitare, intromettendosi nel dormiveglia, comparendo all’improvviso durante la formazione di un pensiero.
Photocredits | Ritratto Barbara Baraldi: Mirella Malaguti
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