Nel Rione napoletano, un presidio sanitario offre assistenza e farmaci gratuiti alle persone in difficoltà. Abbiamo incontrato la responsabile del progetto, Bianca Iengo.

La pioggia cade copiosa sulle bancarelle del mercato dei Vergini, porta del Rione Sanità a Napoli. Nonostante l’acqua e l’umidità, la vita va avanti, percorre i suoi mille rivoli. Al mercato vi sono meno persone del solito, per colpa della pandemia. Ma in fondo questo luogo ne ha viste tante e il Covid non sarà di certo l’ultima. I seicenteschi palazzi si affacciano sulla piazza, come in una quinta teatrale e forse spiano la vita che scorre sotto. Guardano curiosi quel brulicare di esistenze, oggi più lento del solito, quell’insieme di storie, ognuna con i suoi vissuti e preoccupazioni. Gli antichi palazzi non sono gli unici spettatori che probabilmente curiosi osservano il trascorrere della vita, ma ve ne sono forse molti altri nelle viscere della terra. Infatti, via dei Vergini era dall’epoca Greca e Romana, ma anche in epoca Barocca, la porta della città dei morti, la zona delle catacombe. Nell’antichità queste erano nettamente separate dalla città, ma nei secoli, per la fine della buona pratica greco romana di seppellire i morti fuori dalle mura cittadine e per l’allargarsi di Napoli, furono inglobate nel nascente Rione Sanità. Anche le anime nelle catacombe, che probabilmente ne hanno viste anch’esse tante, non saranno forse così stupite nel vedere il mercato dei Vergini più vuoto del solito e forse non si chiederanno perché le persone portano mascherine sul volto o perché i turisti sono quasi spariti. Gli sguardi curiosi, nascosti in questo metaforico teatro di pietra, non potranno che essere colpiti positivamente dalla storia del Presidio Sanitario Diocesano, Gocce di Carità, che è ospitato nel complesso dei vincenziani che si affaccia sul mercato. Per conoscere meglio questa storia, abbiamo intervistato il Direttore del presidio e responsabile del progetto “Un Farmaco Per Tutti”, Bianca Iengo.

Come nasce il progetto?
Il Presidio Sanitario Diocesano Gocce di Carità, è un presidio per il benessere della persona, di promozione umana. Il progetto nasce dal desiderio di dare una risposta adeguata alle numerose richieste da parte di persone in difficoltà in ambito sanitario, soprattutto farmaci non rimborsabili o che costavano troppo per i pazienti. Vi sono poi casi di persone italiane che avendo perso la residenza per motivi familiari, non hanno più il medico di famiglia o stranieri irregolari seguiti da Ambulatori Stp e Eni, gli ambulatori per chi non ha i documenti in regola. Il progetto è stato pensato con la Diocesi di Napoli, in particolare grazie alla collaborazione del Cardinale Sepe e dell’Ordine dei Farmacisti che coordina la raccolta dei medicinali.

Bianca Iengo con il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris

Come funziona la raccolta dei farmaci?
La raccolta viene fatta attraverso le farmacie, grazie a contenitori in cui i clienti possano donare dei farmaci, non scaduti e che non usano più, che hanno a casa o comprarne di nuovi per il progetto. Periodicamente dei corrieri vanno a ritirare i farmaci nelle farmacie, ve ne sono più di 200 che partecipano al progetto. Ci sono poi molte persone che vengono qui a donare farmaci o “adottano” le terapie di alcuni pazienti. L’idea è quella di intercettare una povertà nascosta, persone che non riescono ad avere accesso facilmente ai farmaci. Pazienti che non sempre si intercettano facilmente.

Come selezionate i pazienti da aiutare?
Come Diocesi ci occupiamo della parte distributiva. Intercettiamo gli utenti del servizio attraverso una rete sul territorio di associazioni, tra cui Emergency, la Comunità di San Egidio, Centro la Palma, Missionari Vincenziani e molte altre. Ci sono più di duecento associazioni accreditate a cui forniamo i farmaci per i pazienti che ci segnalano. Anche fuori dalla Diocesi, in quanto collaboriamo con Diocesi sorelle. Nel tempo siamo riusciti a capire quali erano le problematiche più ricorrenti e abbiamo compreso che molte persone che vivono situazioni di disagio importanti rinunciavano a curarsi. Tante volte sono proprio i medici a rimproverare i pazienti, accorgendosi che determinate cure non effettuate, avrebbero potuto cambiare la loro situazione. In molti casi, problematiche non curate quando si poteva, sono diventate poi croniche.

Ormai per le persone siete un punto di riferimento, non solamente medico, vero?
Parte fondamentale del lavoro è l’ascolto, per capire qual è il reale bisogno e quali sono le difficoltà al reperimento dei farmaci o all’accesso alle visite specialistiche. Quindi lavoriamo in rete, sia con le associazioni per intercettare i pazienti che hanno bisogno di aiuto, sia con le realtà sanitarie e gli ospedali per le visite specialistiche. Grazie a dei protocolli di intesa che la Diocesi ha fatto con i Policlinici, riusciamo a seguire i casi più gravi nelle visite specialistiche. Facciamo da Cup solidale, nei casi in cui la persona non possa pagare il ticket o perché non ha il medico di famiglia. Non solo stranieri, ma anche molti italiani che non hanno più una casa e non avendo un domicilio, non hanno un medico di base. Spesso sono anche malati cronici.

Con la pandemia di Covid19 cosa è cambiato?
Nell’ultimo periodo, con la pandemia, sono aumentati sia i tipi di povertà, sia le persone che si sono rivolte a noi. C’è un aumento di italiani senza fissa dimora, tra cui molti giovani maschi che si separano e perdono la casa e non hanno lavoro. Ci sono poi molte donne straniere in gravidanza o con bambini che arrivano attraverso le associazioni del territorio. Abbiamo creato una rete con gli ambulatori ginecologici per seguirle fino al parto.

Quante persone avete seguito fino a oggi?
Finora abbiamo assistito quasi quattordici mila persone. Se contiamo anche le persone a cui spediamo all’estero i farmaci attraverso la Caritas, per esempio in Libano o in Burkina Faso, le persone sono molte di più. Aiutiamo anche volontari di associazioni estere, come quelli della Croce Rossa o Lions.

Che storie hanno i vostri pazienti?
Ci sono tante persone che abbiamo seguito che erano in difficoltà i primi tempi, soprattutto giovani, magari orfani che hanno avuto un iniziale periodo di sbandamento e che poi grazie all’aiuto sono riusciti a trovare la loro strada e sistemarsi. Oggi mi vengono a trovare e li vedo finalmente realizzati. Questo avviene soprattutto per gli italiani. Tra i senza fissa dimora stranieri vedo più resistenza all’idea di uscirne fuori e sulla progettualità di casa. Forse il loro essere migranti o rifugiati, fa sì che diano ormai per scontato di non avere una casa. Si accontentano di stare nei centri di accoglienza di bassa soglia, la percepiscono come una soluzione definitiva. Ma secondo me questi luoghi non sono la soluzione. Sono luoghi di assistenza, ma non di promozione umana.

Il Rione Sanità, Napoli

Perché?
Questo assistenzialismo poi porta ad adagiarsi in una strana sicurezza. Ti si garantisce un letto e da mangiare, ma nessun percorso di rinserimento nella società. Durante il giorno stai semplicemente per strada. Con alcuni sono riuscita almeno nell’educazione alimentare, perché mangiando quel che trovano, spesso carboidrati, hanno molti problemi alimentari. Parecchi diventano obesi, non perché mangino troppo, ma perché mangiano male. Ad alcuni migranti sono riuscita a trasmettere uno stile di vita migliore. Mangiare meno carboidrati e mangiare più sano, per quanto possono. Magari anche cercando un lavoro che gli permetta di comprare cibo più salutare. Con qualcuno ci sono riuscita. Per altro, alcuni di loro vengono anche da famiglie che nel loro paese sono benestanti e di un certo livello culturale. Uno di essi ha addirittura due medici in famiglia. Cerco anche di trasmettergli l’amore per la cura del proprio corpo, per la pulizia. In questo periodo stiamo dando anche i dispostivi per il Covid, anche trasmettendo l’importanza delle regole che un gruppo si dà per vivere insieme. Ecco perché ci piace curare anche l’accoglienza. Spesso creiamo momenti di condivisione, anche attraverso il cibo.

Il Rione Sanità vi ha accolto con molto affetto, è stato così da subito?
Lo spazio nel Rione Sanità è nato perché, quando abbiamo pensato al progetto con la Diocesi, ho chiesto di localizzarlo in un quartiere in cui ci fosse un reale bisogno e non in un quartiere ricco. Il Rione Sanità ha una profonda cultura popolare e ospita anche due grandi centri per senza tetto. Si tratta di un quartiere molto accogliente e che nonostante la gentrificazione degli ultimi anni, rimane profondamente popolare. Era quindi il luogo perfetto dove operare. Conoscevo il rione molto bene, ospita molte strutture di volontariato e del terzo settore. Volevo un luogo dove la gente si sentisse a casa e un rione storico come questo ha una cultura accogliente e antica, che ti fa sentire subito il benvenuto. La struttura che ci ospita è dei Vincenziani. Abbiamo adeguato gli spazi alle leggi per lo stoccaggio e conservazione dei farmaci. Il quartiere mi ha accolto come una di loro. Io amo stare tra la gente e qui mi hanno aperto le loro porte. È un Rione che ha un cuore grande.

Che rapporto si è creato con i pazienti?
I pazienti non vengono da noi solamente per chiedere farmaci, ma anche per parlare, per raccontarsi. Alcuni sono anche malati oncologici e in alcuni momenti si sentivano molto giù. C’è voluto un lavoro costante per farli uscire dalla depressione. Un lavoro che va iniziato combattendo quel senso di solitudine che le persone vivono. Un senso di solitudine che spesso è molto peggiore della malattia stessa. Sconfitta la depressione, molti pazienti hanno avuto la forza di affrontare la terapia e accettare la malattia con la forza necessaria. Nelle terapie oncologiche l’aspetto psicologico è fondamentale. La forza di volontà della persona è centrale, se la persona rinuncia, le possibilità di non farcela aumentano. L’incoraggiamento è altrettanto importante. In fondo la pandemia ci ha messo tutti di fronte alla consapevolezza della precarietà della vita, che è un dono. Non la controlliamo noi, non siamo noi a decidere quando inizia e quando termina. Possiamo fare molto con la prevenzione, stando attenti, usando correttamente i dispositivi, ma nessuno può sentirsi superiore a una altro in questo campo. Siamo tutti nella stessa barca.

I volontari vi danno un grande aiuto.
Questo lavoro viene fatto grazie al fondamentale ruolo dei volontari, ognuno con le sue competenze. Sono una trentina, ognuno di loro è arrivato qui con il suo percorso alle spalle. Alcuni, sono arrivati con al seguito sofferenze importanti o problemi di salute che hanno superato facendo i volontari qui. Spesso mi dicevano che stavano bene venendo da noi. Senza di loro non potrei andare avanti.

Qual è il più bel regalo che questo progetto ti ha dato?
Le relazioni con i pazienti sono il più bel regalo che questo progetto mi abbia dato, vederli crescere e poi venirmi a trovare quando non hanno più bisogno di aiuto, solamente per salutarmi, mi riempie il cuore di gioia. Alcune persone che incontravo in carcere quando sono uscite e hanno intrapreso un percorso di cambiamento, sono venute a trovarmi, dicendomi quanto era stato per loro importante ricevere la mia visita in prigione e che ora era per loro importante ricambiare venendomi a trovare al presidio.


Riferimenti dell’Ambulatorio

biancaiengo.farmacosolidale@chiesadinapoli.it per info e consulenza tecnica: dalle ore 11.00 alle ore 20,00 presso il complesso dei Vincenziani a via dei Vergini 51, cell. 345 519 56 96


Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.