Di Frank Iodice

Negli ultimi anni ho assistito a un esponenziale aumento di violenza sulle donne in tutte le sue forme, verbale, fisica, psicologica, sessuale. Ho guardato al mio paese dalla postazione privilegiata che mi sono costruito, con una mente più lucida forse rispetto a tanti amici e parenti che hanno fatto invece la scelta di restare, e ho potuto constatare il male figlio dell’odio, il prodotto dell’ancestrale misoginia che abbiamo ereditato. Quello che ho visto mi ha inorridito, i numeri mi hanno inorridito, le dinamiche, spesso simili tra loro, negli ambienti familiari, nelle intimità che per l’Italia cattolica dovrebbero avere un valore quasi sacro, violate dalle urla che solo di rado hanno svegliato i vicini. E poi, la cosa peggiore: il silenzio.

Frank Iodice. Foto © Fou d’Image, Annecy 2021

Il silenzio è quel male che si annida tra la mano del carnefice e la coscienza della vittima. Rappresenta tutto ciò contro cui stiamo lottando quando scendiamo in piazza. Il silenzio è quel male invisibile in cui sono nascosti i costrutti della società patriarcale. Poche voci femminili nei secoli hanno avuto l’ardire di smontarli e di denunciare. Nell’arte o nella letteratura, Artemisia Gentileschi, che tagliò il capo al potere dell’uomo con la sua stessa spada, le donne umaniste, Laura Cereta, o figure memorabili come Veronica Franco, o altre meno note come Camilla Faà Gonzaga, che ebbe il coraggio di ribellarsi a un gioco perverso che la vedeva come merce di scambio, e usò l’arma più pericolosa, la parola scritta, passando dalla dimensione privata a quella pubblica. Benché fosse solo il primo passo per superare almeno tre secoli di storia in cui la donna era stata azzittita dai bavagli culturali, sociali e religiosi delle maggiori civiltà occidentali – tre secoli che si potrebbero riassumere nelle parole di quel parroco che ha dichiarato: “Bisogna accettare. Non esageriamo! Anche le mogli talvolta mancano nei confronti dei mariti” – e arrivare infine alla consapevolezza che la violenza sulle donne è anzitutto violenza contro i diritti umani e per questo riguarda tutti noi.

Assistendo ai casi di violenza, di cui ogni giorno si parla sulle pagine dei giornali, una voce dentro di me continuava a ripetere: è arrivato il momento di parlarne, non puoi più rimandare. Ed io ascoltavo questa voce e mi convincevo che si trattasse di un invito alle vittime, una lotta contro il loro silenzio, perché rinunciando a denunciare i compagni o gli ex compagni al primo segnale di violenza era come se si stessero immolando. Immolando in nome di cosa, non so. Un’immagine per l’appunto sacra della famiglia, da ostentare alle società benpensanti, costi quel che costi? O magari un amore di cui si conserva solo un lontano, sbiadito ricordo e da tempo si è trasformato in possessione e nulla più? Analizzavo i meccanismi che spingono una donna a subire una violenza che ha solo come punto culminante la mano, ma che inizia dalla bocca, dal linguaggio.

È nel linguaggio il terreno di coltura della violenza di genere, nelle espressioni che impariamo fin da bambini meccanicamente, nei preconcetti, nel giudizio a priori. Su questo, non avevo dubbi; nella lingua di un popolo non solo si rispecchia la sua cultura, ma l’impalcatura che sorregge in equilibrio precario l’insieme di sicurezze e di insicurezze che ci rendono più umani, ed è per questo che una lingua non è mai perfettamente esaustiva e permette incursioni dei vari substrati culturali plasmandosi a seconda di chi la usa. Ma la domanda successiva, quella che mi perseguitava forse anche in maniera peggiore rispetto alla prima, era: perché. Perché trasformo le protagoniste dei miei libri in vittime o eroine che lottano contro il potere arrogante dell’uomo? La risposta era molto semplice, ma la rinviavo, da più di trent’anni non facevo altro che rinviarla.

La verità è che anche io sono stato vittima di uno stupro e anche io ho lottato con le uniche armi che la natura mi ha donato, la penna forse, la capacità di amare e farmi amare, la resilienza, parola quest’ultima ormai abusata, ma da intendere qui nel suo significato psicologico.

La mia testimonianza può contribuire a una costruzione di una cultura di genere? Può servire a persuadere i nostri ministri ad accelerare l’approvazione di certe leggi che sono ancora in attesa o altre che restano troppo blande e non sono servite finora a fermare e soprattutto a punire adeguatamente i colpevoli? Se penso che fino al 1981 nel nostro paese esisteva ancora il “delitto d’onore”. Lo strascico di una cultura della violenza domestica. Non trovo altra definizione… Può servire la mia esperienza – dicevo – ad aiutarci a capire l’importanza della denuncia, dell’uso consapevole della parola? Non lo so. Quello che so è che rimanere in silenzio per tanti anni e decidere solo adesso di raccontare quello che sto per raccontare, non mi ha di certo aiutato a vivere una vita serena e priva di incubi, ma forse aiuterà gli altri e sarò felice almeno per metà. È arrivato il momento di parlarne, dunque, e lo farò nel modo più lucido possibile.

Non avevo più di sei, sette anni, non ricordo l’età esatta, trascorrevo diversi mesi a casa dei nonni o degli zii perché i miei genitori lavoravano anche d’estate e cercavano di non lasciare me e mio fratello da soli per tutto il giorno. In uno di questi lunghi soggiorni nel paesino della zia, iniziai a frequentare un ragazzo più grande, una specie di lontano cugino. Io ero un cosiddetto bambino di città, ero poco sveglio, non ero abituato a cavarmela per strada, nei vicoletti ardenti del sud, in cui il sole ti scotta i pensieri col rischio di renderli folli. Trascorrevo i pomeriggi a scrivere poesie e parlare d’amore. Per la società dell’uomo io ero un “debole”, un “femminiello”, come si dice al sud, a dimostrazione di come nel linguaggio si rispecchia un’intera cultura della traslazione dei ruoli tramandata di padre maschio in figlio maschio. Non sapevo ancora quale orientamento sessuale avrei avuto, ma non mi ponevo il problema in questi termini. L’incognita più grande per me era: amerò? mi ameranno? Dei miei dialoghi interiori, comunque, non facevo partecipi gli altri, perché non mi davano l’impressione di poter comprendere. I loro discorsi erano molto più tangibili: le moto da corsa o quelle da strada, il pallone arancione o quello blu, e la “fessa”, che non è solo l’incipit del famoso film di Sorrentino, ma un insulto, una parola che mi vergognavo a ripetere. E mentre adesso saprei spiegare il perché, allora non avevo gli strumenti per capirlo. Un giorno con una scusa qualsiasi, per andare a comprare i dolci della domenica mi sembra, quel ragazzo mi portò con lui, e io mi fidai, gli presi la mano e ci andai. Mi fece sedere nel sedile posteriore e abbassò tutte e quattro le sicure, quei cavicchi appuntiti delle auto di una volta, che somigliavano ai tappi dei palloni e si potevano svitare. Fu il momento in cui compresi che non stavamo più giocando e stava per succedere qualcos’altro. Qualcosa che non capivo. Il resto sono dettagli, che rivivo in sogno a volte, come una presenza astratta da cui cerco di liberarmi e che riempie i vari sensi con l’invadenza di un buio corposo in cui sono immerso.

I dettagli della violenza – mi dico adesso – non interesseranno, almeno non quanto ciò che viene prima. È nella preparazione alla violenza che dobbiamo cercare la salvezza. La vittima deve riconoscere quella lunga serie di gesti e di parole che la preparano al suo ruolo: le offese, le umiliazioni, le aggettivazioni stereotipate, i tabù, gli atteggiamenti discriminatori, e rompere il silenzio imposto dall’uomo. Il problema è che l’immagine dell’uomo forte, il macho, fa fatica a svanire nel nostro immaginario e lasciare spazio a una visione obiettiva della forza e della debolezza, che non hanno nulla a che fare col corpo, ma sono condizioni assai variabili. Pensando a tutto questo, ho capito anche un’altra cosa: a pagare il prezzo del successo del maschio bianco etero, modello di potere sociale, e spesso politico, non sono solo le donne, violentate dalle società fallocratiche e maschiliste, ma anche alcuni uomini che, a loro volta, diventano vittime sacrificali. In altre parole, finché un bambino che parla d’amore sarà definito un “femminiello”, la nostra lotta sarà solo all’inizio.

Frank Iodice è nato a Napoli, l’otto febbraio del 1982. A vent’anni è partito per gli Stati Uniti, dove ha svolto i lavori più disparati. Ha pubblicato numerosi romanzi, tradotti in diverse lingue sotto vari pseudonimi.